Si conclude oggi, dopo quasi tre anni (ottobre 2021), questa rubrica sul Concilio Vaticano II, nata con l’intento di evidenziare alcuni aspetti particolari di quell’evento così importante per la Chiesa Cattolica e per il mondo intero.
La lettura di alcuni dei numerosissimi interventi dei Padri conciliari raccolti nei volumi degli Acta Concilii Vaticani II, mostra in modo evidente l’interesse e il coinvolgimento suscitato dalle questioni dibattute non solo tra i vescovi, ma anche nell’opinione pubblica di allora, nella Stampa, all’interno delle altre Chiese cristiane e delle altre religioni. Mi è pertanto sembrata buona cosa riservare un po’ di spazio a riportare, talvolta con citazioni letterali, talvolta riassumendoli, alcuni di tali interventi ad opera sia di Padri, prevalentemente europei, che hanno svolto un ruolo decisivo, sia di Padri meno noti, spesso di altri continenti, che hanno potuto per la prima volta far sentire la loro voce, evidenziando così l’aspetto veramente «cattolico» del Concilio. Mi è parso inoltre che ciò consentisse due obiettivi per me importanti: in primo luogo mostrare come allora fossero presenti, tra i circa 3000 vescovi del Concilio, idee e visioni sulla fede cristiana, sulla Chiesa e sul mondo, spesso tra loro molto diverse, se non contrapposte; in secondo luogo, dare un’idea, anche solo minima, di come queste opinioni espresse durante i dibattiti siano state recepite e, alla fine, entrate a costituire i testi dei documenti finali che noi oggi possiamo leggere.
Per fare tutto questo, mi è sembrato inevitabile anche ripercorrere cronologicamente, se pur in modo sintetico, le fasi che hanno caratterizzato la discussione e l’approvazione di alcuni testi molto controversi fino alla fine.
Come già avevo fatto presente, tra i sedici documenti finali del Concilio, mi sono soffermato solo su quelli che mi sembrava potessero interessare di più, per i temi trattati, un pubblico di laici: il mio auspicio è che ciò induca qualcuno a leggerli integralmente.
Infine, è con grande piacere e senso di riconoscenza che ringrazio coloro che tre anni fa mi proposero di iniziare questo lavoro e che in tutto questo periodo mi hanno reso possibile continuarlo e portarlo a termine grazie alla loro disponibilità, al loro contributo e alla loro fiducia nei miei confronti: il dott. Don Mattia Tomasoni, direttore della Biblioteca del Seminario, la dott. Silvia Piazzalunga e il dott. Andrea Capelli, bibliotecari efficientissimi e carissimi amici.
Giorgio Gervasoni
Dopo la Dichiarazione comune di Paolo VI e Atenagora, nell’omelia della messa del 7 dicembre il Papa tiene un discorso in cui pone una domanda fondamentale: qual è il valore religioso del Concilio? Con ciò egli intende riferirsi al rapporto tra il Concilio stesso e Dio, che è «ragion d’essere della Chiesa e di quanto ella crede, spera e ama, di quanto essa è e fa». Prima di tutto il Papa afferma che il Concilio ha dato gloria a Dio, ha cercato di conoscerlo, di contemplarlo, di celebrarlo e di proclamarlo agli uomini. Quindi Paolo VI sottolinea alcuni aspetti del tempo in cui il Concilio si è svolto: un tempo in cui «la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra suggerita dal progresso scientifico», in cui l’uomo tende ad affermare la propria autonomia assoluta, liberandosi da ogni legge trascendente. In tale contesto il Concilio ha invece voluto riaffermare «la concezione teocentrica e teologica dell’uomo e dell’universo», che Dio è reale, è vivo, è personale, è provvido, è infinitamente buono, non solo in sé, ma anche per noi.
Il Papa evidenzia poi il fatto che il Concilio, più che delle verità divine, si è occupato della Chiesa, della sua natura, composizione, vocazione ecumenica, attività apostolica: ha compiuto «un atto riflesso su se stesso per conoscersi meglio»; tuttavia esso ha mostrato grande interesse allo studio del mondo moderno, ha voluto avvicinare e comprendere la società del suo tempo, consapevole della frattura creatasi negli ultimi secoli fra la Chiesa e la civiltà profana. Perciò la Chiesa del Concilio si è occupata anche dell’uomo quale oggi in realtà si presenta, con tutte le sue debolezze e grandezze, peccatore e santo; la figura del buon Samaritano ha costituito l’esempio della spiritualità del Concilio, cioè della sua attenzione e della sua «simpatia immensa» per i bisogni umani: in questo senso «la religione del nostro Concilio è stata principalmente la carità evangelica». In particolare, Paolo VI accenna all’atteggiamento fiducioso e ottimista del Concilio nei confronti del mondo contemporaneo, di cui apprezza i valori, gli sforzi, le aspirazioni; inoltre il Concilio «ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti, ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, è sceso a dialogo e ha parlato all’uomo d’oggi, quale esso è». Ma l’interesse per i valori umani e temporali è dovuto al carattere pastorale che il Concilio ha scelto come programma. Tutto è stato rivolto dal Concilio all’umana utilità, perché la religione cattolica è per l’umanità, è la vita dell’umanità, perché della vita descrive la natura e il destino, le dà il suo vero significato, grazie alla sua scienza di Dio: per conoscere l’uomo bisogna conoscere Dio. Ma poiché nel volto di ogni uomo dobbiamo ravvisare il volto di Cristo, immagine del Padre, per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Perciò, conclude il Papa, il significato religioso del Concilio altro non è che «un amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio nel quale abitare è vivere».
8 dicembre 1965: il Concilio si conclude con la celebrazione di una messa solenne, al termine della quale vengono letti dei messaggi indirizzati dal Papa alle diverse categorie del genere umano.
Un atto importante del 7 dicembre 1965 è la Dichiarazione comune di Paolo VI e di Atenagora I, patriarca ortodosso di Costantinopoli, letta contemporaneamente a Roma in San Pietro e a Istambul nella Chiesa del Fanaro, in cui si proclama la riconciliazione tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa, separate da quasi mille anni, dal 1054, dopo una reciproca sentenza di scomunica che i rappresentanti delle Chiese di allora si lanciarono vicendevolmente.
Certamente significativa questa decisione, data l’importanza del tema ecumenico, che è stato uno dei motivi ispiratori che hanno spinto Giovanni XXIII a indire il Concilio e che ha trovato espressione, in particolare, nel Decreto Unitatis redintegratio (cfr. nn. 30, 51-56).
All’inizio della Dichiarazione si ringrazia Dio per la possibilità che Paolo VI e Atenagora I hanno avuto di incontrarsi in Terra Santa nel gennaio del 1964 (cfr. nn. 41-42), col proposito di superare gli antichi contrasti tra le due Chiese, per essere di nuovo «una sola cosa», secondo la preghiera di Gesù.
Si ricordano poi i fatti del 1054 e le reciproche condanne, che riguardavano però solo le persone allora colpite e non intendevano rompere la comunione ecclesiastica tra Roma e Costantinopoli.
Pertanto Paolo VI e Atenagora I dichiarano di deplorare le parole offensive e i gesti di reciproca condanna che hanno accompagnato quei fatti; di «deplorare e cancellare dalla memoria e dal seno della Chiesa le sentenze di scomunica che vi hanno fatto seguito e di condannarle all’oblio»; di deplorare altri avvenimenti che hanno portato alla rottura definitiva della comunione ecclesiastica.
Questo gesto di perdono reciproco non basterà a metter fine alle divergenze, antiche e recenti, tra le due Chiese, ma potrà essere apprezzato «come l’espressione di una sincera volontà reciproca di riconciliazione e come un invito a vivere di nuovo nella piena comunione di fede che fu in atto tra loro nel primo millennio della vita della Chiesa».
Nella foto: la medaglia che ricorda l’incontro a Gerusalemme nel gennaio del 1964 tra Paolo VI e Atenagora
Sull’obiezione di coscienza al servizio militare così si esprimono alcuni vescovi tra il 6 e il 7 ottobre 1965: gli inglesi C. Butler e W. Wheeler osservano che l’obbedienza alle autorità in tempo di guerra è stata alla base di troppi crimini nella nostra epoca. Vi sono dei doveri non solo verso il proprio paese, ma anche verso tutti gli altri uomini, e ciò talvolta impone di rifiutare l’obbedienza: perciò l’obiezione di coscienza non condemnanda, sed commendanda (non deve essere condannata, ma raccomandata). Certi obiettori possono essere i profeti di una morale veramente cristiana, testimoni della vocazione cristiana alla pace.
Castan Lacoma (Spagna) non approva l’inciso, presente nel testo, sull’obiezione di coscienza, che rischia di indebolire l’autorità civile, a cui andrebbe lasciata la decisione in merito.
G. Beck (Liverpool): i governi devono rispettare la coscienza dei cittadini, i quali ritengono che certe forme di guerra, anche difensiva, non sono mai giustificabili, poiché essi sono convinti che la guerra sia, in ogni caso, un male grave. Un soldato o il comandante di un aereo ha il diritto di rifiutarsi di sganciare un ordigno che annienterebbe un’intera città o di partecipare a un’aggressione indiscriminata. Bisognerebbe perciò dire chiaramente che in certe circostanze l’autorità non può fare o minacciare senza perdere il diritto all’obbedienza dei cittadini.
Carli (Segni): anche oggi è possibile una guerra giusta, che rende moralmente legittimo il servizio militare, e quindi l’obiezione di coscienza è moralmente illecita.
Gaudium et spes, parte II, c. V (dal n. 79) (testo finale): Sembra conforme a equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana (79).
La pace non è la semplice assenza della guerra…non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene definita «opera della giustizia» (Is 32,7). E’ il frutto dell’ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini…Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo (78)…Finché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato hanno il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati (79). [Con le nuove armi scientifiche] le azioni militari possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto i limiti di una legittima difesa…Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione (80)…Mentre si spendono enormi ricchezze per la preparazione di armi sempre nuove, diventa impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente…E’ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri (81)…Questo esige che venga istituita un’autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti…Agli uomini della nostra età la Chiesa di Cristo intende presentare con insistenza il messaggio degli apostoli: «Ecco ora il tempo favorevole» per trasformare i cuori, «ecco ora i giorni della salvezza» (82).
Promuovere la pace e condannare la guerra: su questo tema il card. Liénart (Francia) nella 143^ congr. del 6/10/1965 sottolinea che la distinzione tra guerra giusta e ingiusta non basta più: il ricorso alle armi è permesso solo per ristabilire la giustizia, ma come è ancora possibile ciò con i mezzi inumani di cui oggi si dispone? Perciò oggi i diritti vanno difesi non con le armi, ma sopprimendo le ingiustizie, che causano guerre, con opere di giustizia e di fraternità. Bisogna perfezionare lo schema del testo, che si rifà alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, ma senza attenuarne la dottrina.
Il card. Léger (Canada): la teoria classica sulla moralità della “guerra giusta” appare inapplicabile per la potenza distruttiva delle armi attuali; è perciò irragionevole considerare la guerra odierna uno strumento proporzionato e lecito per rivendicare i diritti violati. Bisogna piuttosto rafforzare un’autorità internazionale che garantisca la pace e i cattolici devono collaborare con gli altri cristiani e i seguaci delle altre religioni in difesa della dottrina della non violenza.
L. Castan Lacoma (Spagna): si dovrebbe dire che nessuna nazione ha da sola l’autorità di dichiarare una guerra, perché gli effetti di essa possono ricadere anche sui non belligeranti. La guerra atomica è ingiusta e si deve operare una soppressione concorde delle armi nucleari. L’unica soluzione efficace in favore della pace, a cui il testo accenna, è la costituzione di un organismo internazionale che risolva pacificamente i conflitti.
E. Duval (Algeri): il testo deve invitare tutti con più forza alla pace e deve condannare il razzismo che è uno dei principali disordini della nostra epoca, segno di disprezzo per l’uomo e offesa a Dio. Altro pericolo permanente di guerra è lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze tra paesi ricchi e poveri.
Anche nella vita economico-sociale sono da tenere in massimo rilievo e da promuovere la dignità della persona umana, la sua vocazione integrale e il bene dell’intera società. L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale…Una contrapposizione si fa ogni giorno più grave tra le nazioni economicamente progredite e le altre…(63). Il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo economico consiste nel servizio dell’uomo integralmente considerato e di ogni gruppo umano, di qualsiasi razza o continente. Pertanto l’attività economica deve essere condotta…in modo che risponda al disegno di Dio sull’uomo (64). …siano rimosse il più rapidamente possibile le ingenti disparità economiche che portano con sé discriminazioni nei diritti individuali e nelle condizioni sociali (66).
Dio ha destinato la terra e tutto ciò che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati devono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità…si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni…a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e i Dottori della Chiesa, che insegnavano che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non solo con il loro superfluo. Chi si trova in estrema necessità, ha il diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui… il Concilio richiama urgentemente tutti affinché, memori della sentenza dei Padri: «Da’ da mangiare a colui che è moribondo per fame, perché se non gli avrai dato da mangiare, lo avrai ucciso», realmente mettano a disposizione e impieghino utilmente i propri beni fornendo ai singoli e ai popoli i mezzi con cui essi possano provvedere a se stessi e svilupparsi (69).
Vita economico-sociale: su questo tema, con particolare riferimento alla condizione dei poveri, il card. spagnolo Arriba y Castro nella congr. 141^ del 4/10/1965 osserva che la Chiesa è chiesa dei poveri, poiché non solo si occupa di loro, ma ne favorisce la promozione ad uno stato economico e sociale più degno e più umano. Il comunismo non è una soluzione al problema sociale, ma può diventare una rovina per l’umanità per colpa di quanti non hanno messo in pratica il Vangelo. Occorre perciò attuare la dottrina sociale della Chiesa e ciò spetta in primo luogo ai proprietari dei beni terreni. Il card. di Siviglia J. Bueno y Monreal osserva che il capitolo 3 non pone in risalto l’aspetto sociale di una giusta distribuzione dei redditi; l’esposizione, inoltre, riflette una mentalità capitalistica, che ha dato luogo alle lotte di classe.
G. Thangalathil (India): il c. 3 non contiene citazioni della Scrittura, che pure sono numerose, sull’uso delle ricchezze. L’aiuto ai paesi poveri meriterebbe un posto di primo piano, per eliminare lo scandalo dello squilibrio fra ricchi e poveri e per garantire la pace. A. Fernandes (India), a nome di molti vescovi di Asia, Africa, America latina, rileva che la maggior parte dell’umanità vive nel Terzo Mondo, afflitto dalla povertà: lo schema accenna sì a questa situazione, ma il Concilio dovrebbe parlarne di più e mostrare il dovere di tutti i cristiani di lavorare alla soluzione dei gravi problemi che affliggono i paesi più poveri. M. Himmer (Belgio): il progresso economico e l’aumento della produzione devono essere a servizio dell’uomo, non del lucro, e posti in connessione con i principi fondamentali del cristianesimo; perciò occorre fornire una base teologica all’attività economica dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio.
L’amore tra marito e moglie, proprio perché atto eminentemente umano, abbraccia il bene di tuta la persona…Un tale amore conduce gli sposi al libero e mutuo dono di se stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi…Gli atti con i quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano…Quest’amore resta indissolubilmente fedele, nella prospera e nella cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito; di conseguenza esclude ogni adulterio e ogni divorzio…(49). Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione e educazione della prole. I figli infatti sono il dono più eccellente del matrimonio e contribuiscono grandemente al bene dei genitori stessi… Il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione; il carattere stesso di alleanza indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. Perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità (50).
Matrimonio: su questo tema Ruffini (Palermo) nella congr. 138^ del 29/9/1965 afferma: «Il testo non cita Casti connubii di Pio XI (1930) e non distingue tra fine primario (procreazione) e fini secondari, cosa che è un punto fermo della dottrina cattolica; esso accentua troppo i fini secondari e da esso non si deduce la verità che ogni atto inteso a privare artificialmente l’unione coniugale della sua finalità procreativa, è disonesto e contro natura».
Léger (Montreal): «La nuova redazione del testo espone meglio di quella precedente la legittimità dell’amore coniugale. Il matrimonio è anche e soprattutto una comunanza di vita e di amore, ma alcune affermazioni sembrano suggerire che tale comunanza sia un semplice mezzo per la procreazione e che non abbia senso se non in rapporto ad essa: ciò è falso e avvilisce la dignità dell’amore umano. Perciò si deve dire chiaramente che il matrimonio è comunanza di vita e di amore e quale significato assume la generazione della prole per l’amore e la vita coniugale, la cui fecondità è come il culmine dell’amore reciproco».
G. Colombo (Milano): «Il capitolo piace perché l’amore coniugale è dichiarato fine intrinseco, coessenziale alla finalità procreativa. Dalla natura propria dell’amore coniugale si fa derivare l’obbligo della fedeltà e dell’indissolubilità e l’intimo rapporto con la fecondità e la paternità responsabile».
J. Reuss (Germania): «Il testo pone giustamente in rilievo l’importanza dell’amore coniugale, che sta alla base dello stesso matrimonio, della procreazione e dell’educazione della prole».
Ateismo: su questo tema Maximos IV, patriarca di Antiochia di Siria, nella 136^ congr. del 27/9/ 1965 così dice : «Il paragrafo 19 sull’ateismo è troppo negativo. Esso descrive il marxismo senza nominarlo, ma abbastanza chiaramente, e naturalmente condanna questa dottrina atea. Ma per salvare l’umanità dall’ateismo non basta condannare il marxismo, bisogna denunciare le cause che provocano il comunismo ateo, proponendo una vigorosa morale sociale…Molti di coloro che si dicono atei non sono realmente contro la Chiesa, ma cercano una presentazione più vera di Dio, una religione in accordo con l’evoluzione storica dell’umanità e una Chiesa che sostenga lo sforzo di solidarietà dei poveri…Non è forse l’egoismo di certi cristiani che ha provocato in gran parte l’ateismo delle masse?…Molti atei sono semplicemente dei Lazzari, scandalizzati da ricchi che si dicono cristiani».
Gaudium et spes, parte I, c. I: La dignità della persona umana (dai nn. 19 e 21sull’ateismo) (testo finale)
L’ateismo va annoverato tra le realtà più gravi del nostro tempo…Esso ha origine spesso dalla protesta violenta contro il male nel mondo. Persino la civiltà moderna può rendere più difficile l’accesso a Dio…Anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. Infatti l’ateismo non è qualcosa di originario, ma deriva da cause diverse, tra cui una reazione critica contro le religioni, specialmente contro la religione cristiana. Per questo nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, se essi nascondono piuttosto che manifestare il genuino volto di Dio e della religione (19). Un rimedio all’ateismo lo si deve attendere sia dall’esposizione adeguata della dottrina della Chiesa, sia dalla purezza della vita di essa e dei suoi membri…Una fede viva e adulta deve manifestare la sua fecondità col penetrare l’intera vita dei credenti e col muoverli alla giustizia e all’amore, specialmente verso i bisognosi (21).
Elchinger, vescovo di Strasburgo, nella 135^ congr. del 24/9/1965 dice: «L’introduzione allo schema annuncia che il testo esporrà a tutti gli uomini come il Concilio ravvisa l’azione e la presenza della Chiesa in questo mondo. Giovanni XXIII auspicava che la Chiesa si presentasse al mondo con un volto rinnovato: bisognerebbe dire chiaramente, per es., cosa deve fare la Chiesa per contribuire all’elevazione della dignità umana o per eliminare ciò che nelle sue strutture può costituire occasione di incredulità…Ci fu un tempo in cui, per diffidenza, si arrivava a disprezzare il mondo, poi l’epoca in cui il mondo non contava assolutamente nulla. Ecco il momento in cui si vuole mettere fine a questo divorzio fra religione e mondo: è la prima volta che la Chiesa cerca di rispondere alle domande del mondo. La Chiesa deve e vuole salvare l’uomo intero. Il cristiano deve assumere un atteggiamento positivo di fronte al progresso umano. Bisognerà chiamare questo Concilio defensor humanitatis».
Dal Proemio di Gaudium et spes (testo finale)
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore…Perciò la Chiesa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
Il Concilio Vaticano II rivolge la sua parola a tutti indistintamente gli uomini, desiderando esporre loro come essa intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo…Il Concilio non può dare dimostrazione più eloquente della solidarietà, del rispetto e dell’amore di esso verso l’intera famiglia umana, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi, con la luce che viene dal Vangelo. E’ l’uomo integrale, nell’unità di corpo e anima, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Il dibattito sullo schema XIII, La Chiesa nel mondo contemporaneo, interrottosi il 5 novembre del 1964 durante la terza sessione (cfr. nn. 76-82), viene ripreso il 21 settembre 1965, dopo che nell’intersessione sono state introdotte le modifiche richieste dai Padri; la discussione continua per diversi giorni suscitando spesso aspri dibattiti sulle numerose questioni affrontate, finché tra il 15 e il 17 novembre (congr. 161-163) si procede alla votazione sui paragrafi rivisti del testo e, dopo ulteriori modifiche, di nuovo il 4 dicembre. Infine il 6 dicembre (congr. 168^) si giunge al voto finale sull’intero schema, che il 7 dicembre viene approvato definitivamente e solennemente con 2309 voti a favore e 79 contrari. Questo lo schema della Costituzione:
Proemio
Introduzione: la condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo
Parte I: La Chiesa e la vocazione dell’uomo
1: La dignità della persona umana; 2: La comunità degli uomini; 3: L’attività umana nell’universo; 4: La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo.
Parte II: Alcuni problemi più urgenti
Proemio; 1: Dignità del matrimonio e della famiglia; 2: La promozione del progresso della cultura; 3: Vita economico-sociale; 4: La vita della comunità politica; 5: La promozione della pace e la comunità delle Nazioni
Conclusione
In questa e nelle prossime puntate dedicate alla Gaudium et spes (GS) ci soffermeremo sugli interventi di alcuni vescovi relativi ad alcuni dei temi trattati soprattutto nella parte II della Costituzione, a cui seguirà qualche passo del testo definitivo relativo a quegli stessi temi che sono stati oggetto di discussione. Ciò dovrebbe consentire di vedere come le osservazioni espresse durante il dibattito nelle congregazioni sono state recepite dal testo finale.
Dal c. III, par. 11: Ispirazione e verità nella Scrittura
Le verità divinamente rivelate, che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute ed espresse, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo…hanno Dio per autore…I libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere.
Dal par. 12: Come deve essere interpretata la Sacra Scrittura
Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana…è necessario che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese di esprimere ed espresse in determinate circostanze, per mezzo dei generi letterari allora in uso…Si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa.
Dal c. IV, par. 16: Unità dei due Testamenti
Dio, che ha ispirato i libri di entrambi i Testamenti e ne è l’autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio diventasse chiaro nel Nuovo. Infatti i libri del Vecchio Testamento acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento, che essi illuminano e spiegano.
Dal c. V, parr. 18 e 19: Origine apostolica dei Vangeli-Carattere storico dei Vangeli
I Vangeli meritamente eccellono poiché costituiscono la principale testimonianza sulla vita e la dottrina del Verbo Incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, sono di origine apostolica e trasmettono fedelmente quanto Gesù, Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo.
Dal c. VI, par. 25: Si raccomanda la lettura della Scrittura
Il Santo Sinodo esorta tutti i fedeli ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle Scritture. L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo. Si accostino essi volentieri al sacro testo.
Dal c. II, par. 7: Gli apostoli e i loro successori, missionari del vangelo
Cristo Signore ordinò agli Apostoli che…predicassero il vangelo a tutti…Gli Apostoli poi, affinché il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi affidando il loro proprio posto di maestri. Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell’uno e dell’altro Testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio.
Dal par. 8: La sacra Tradizione
La predicazione apostolica, espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi…la Chiesa trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione progredisce nella Chiesa…E’ la stessa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e in essa fa più profondamente comprendere e rende operanti le stesse sacre Lettere.
Dal par. 9: La sacra Tradizione e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per ispirazione dello Spirito di Dio; la sacra Tradizione poi trasmette integralmente la Parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori, affinché fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; così la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola sacra Scrittura.
Dal par. 10: La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa…L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero della Chiesa…Dunque Tradizione, Scrittura e Magistero sono tra loro talmente connessi da non poter sussistere indipendentemente (continua).
La discussione sullo schema della Rivelazione, dopo le modifiche introdotte durante la terza sessione del 1964, viene ripresa nel settembre del 1965, finché, dopo alcune votazioni sui singoli capitoli, il 18 novembre (lo stesso giorno di Apostolicam Actuositatem) si arriva all’approvazione finale del testo, con 2344 voti favorevoli e 6 contrari.
Struttura: Proemio; c. I: La Rivelazione; c. II: La trasmissione della Divina Rivelazione; c. III: L’ispirazione divina e l’interpretazione della Sacra Scrittura; c. IV: Il Vecchio Testamento; c. V: Il Nuovo Testamento; c. VI: La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.
Dal Proemio: In religioso ascolto della Parola di Dio…seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, il Sacrosanto Sinodo intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.
Dal c. I, par. 2: Natura e oggetto della Rivelazione
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé.
Dal par. 4: Cristo completa la Rivelazione
Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come uomo agli uomini, parla le parole di Dio e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre. Perciò Egli…compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte, e risuscitarci per la vita eterna (continua).
Dal c. V, par. 24: Rapporti con la gerarchia
Spetta alla gerarchia promuovere l’apostolato dei laici, fornire i principi e gli aiuti spirituali, ordinare l’esercizio dell’apostolato al bene comune della Chiesa, vigilare affinché la dottrina e le disposizioni fondamentali siano rispettate…Questo atto della gerarchia prende il nome di «mandato».
Dal par. 25: L’aiuto che il clero deve dare all’apostolato dei laici
Il diritto e il dovere di esercitare l’apostolato è comune a tutti i fedeli, sia chierici sia laici, e anche i laici hanno compiti propri nell’edificazione della Chiesa. Perciò vescovi e sacerdoti lavorino fraternamente con i laici nella Chiesa e per la Chiesa.
Dal c. VI, par. 29: Principi per la formazione dei laici all’apostolato
La formazione all’apostolato suppone che i laici siano integralmente formati dal punto di vista umano. Il laico infatti deve essere un membro ben inserito nel suo gruppo sociale e nella sua cultura, impari ad adempiere la missione di Cristo e della Chiesa vivendo anzitutto nella fede il mistero della creazione e della redenzione; è richiesta una solida preparazione dottrinale e cioè teologica, etica filosofica.
Dai parr. 30, 31: Formazione adatta ai diversi tipi di apostolato (sintesi)
Tale formazione ha inizio con l’educazione dei fanciulli e spetta ai genitori, ai sacerdoti, alle scuole, agli insegnanti, alle associazioni laiche di apostolato. Si abbia sempre di mira il bene comune, si curino le opere di carità e di misericordia, si promuovano centri di studio per sviluppare le attitudini dei laici in tutti i campi dell’apostolato, che deve adattarsi alle nuove necessità dei tempi.
Dal c. II, par. 7: L’animazione cristiana dell’ordine temporale
Quanto al mondo, i laici devono assumere il rinnovamento dell’ordine temporale come compito proprio.
Dal par. 8: L’azione caritativa
I laici abbiano in grande stima e sostengano le opere caritative e le iniziative di assistenza sociale, private e pubbliche, anche internazionali.
Dal c. III, par. 9: Introduzione
I laici esercitano il loro apostolato tanto nella Chiesa che nel mondo, in svariati campi: le comunità ecclesiali, la famiglia, i giovani, l’ambiente sociale, l’ordine nazionale e internazionale.
Dal c. IV, par. 16: Importanza e molteplicità dell’apostolato individuale
L’apostolato che ciascuno deve esercitare personalmente è la prima forma e la condizione di ogni altro apostolato dei laici ed è insostituibile. Una forma particolare di apostolato individuale è la testimonianza di tutta la vita laicale… Questo apostolato individuale è di grande necessità e urgenza in quelle regioni in cui la libertà della Chiesa è gravemente impedita… ha luogo particolarmente in quelle regioni dove i cattolici sono pochi e dispersi.
Dal par. 18: Importanza della forma associativa di apostolato
L’uomo per natura sua è sociale e piacque a Dio riunire i credenti in Cristo per farne il popolo di Dio e un unico corpo. Quindi l’apostolato associato corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli…spesso richiede di essere esercitato con azione comune…poiché solo la stretta unione delle forze è in grado di raggiungere pienamente tutte le finalità dell’apostolato odierno.
Dal par. 20: L’Azione cattolica
Tra le associazioni di apostolato vanno ricordate soprattutto quelle che hanno avuto il nome di Azione cattolica, con queste caratteristiche: a) fine immediato è il fine apostolico della Chiesa, cioè l’evangelizzazione e la santificazione degli uomini e la formazione cristiana della loro coscienza (continua).
Il decreto sull’apostolato dei laici, ripreso all’inizio della quarta sessione, nel luglio del 1965 era stato inviato ai Padri con molte modifiche rispetto a quello esaminato nella terza sessione (cfr. nn. 72-75). La discussione si svolge dal 23 al 27 settembre 1965, viene ripresa il 9 e 10 novembre, fino all’approvazione finale nella sessione solenne del 18 novembre, con 2340 voti a favore e solo 2 contrari.
Esso rappresenta una novità assoluta perché è il primo documento di un Concilio che tratti specificamente dei laici. Questo è lo schema:
Proemio; c. I: La vocazione dei laici all’apostolato; c. II: I fini dell’apostolato dei laici; c. III: Vari campi di apostolato; c. IV: Le varie forme di apostolato; c. V: L’ordine da osservare nell’apostolato; c. VI: La formazione all’apostolato; Esortazione.
Dal c. I, par. 2: La partecipazione dei laici alla missione della Chiesa
Questo è il fine della Chiesa: rendere partecipi tutti gli uomini della salvezza operata dalla redenzione, e per mezzo di essi ordinare il mondo intero a Cristo. Tutta l’attività ordinata a questo fine si chiama apostolato… I laici esercitano l’apostolato evangelizzando e santificando gli uomini e animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale.
Dal par. 3: I fondamenti dell’apostolato dei laici
I laici derivano il dovere e il diritto dell’apostolato dalla loro stessa unione con Cristo capo. Infatti, inseriti nel corpo mistico di Cristo per mezzo del battesimo, sono deputati dal Signore stesso all’apostolato.
Dal par. 4: La spiritualità dei laici in ordine all’apostolato
Poiché la fonte e l’origine di tutto l’apostolato della Chiesa è Cristo, la fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro unione vitale con Cristo… Né la cura della famiglia né gli altri impegni secolari devono essere estranei alla spiritualità della loro vita… Questa spiritualità dei laici deve assumere una sua fisionomia particolare a seconda dello stato del matrimonio e della famiglia, del celibato o della vedovanza, della condizione di infermità, dell’attitudine professionale e sociale (continua).
Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a Cristiani e ad Ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo.
E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.
E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.
La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.
Par. 4: La religione ebraica (riportato quasi integralmente in questo e nel prossimo numero)
Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.
La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede , sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso…Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli Apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.
Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento… (continua).
La Dichiarazione sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane vive, anche nella quarta sessione, un periodo di forti tensioni, soprattutto a causa del paragrafo relativo agli Ebrei e al loro rapporto con Gesù e la Chiesa. Le pressioni esercitate dagli oppositori al testo fanno sì che, rispetto alla stesura precedente, venga soppressa l’affermazione in cui si condannava come ingiusta l’accusa di deicidio mossa per secoli al popolo ebraico; inoltre viene eliminato il verbo damnat, usato per dire che la Chiesa condanna le persecuzioni contro gli ebrei, e viene lasciato soltanto il più debole deplorat (in merito al dibattito svoltosi nella sessione precedente cfr. nn. 68 e 69). Nonostante tutto, alla fine si raggiunge un compromesso da cui nasce un testo che, comunque, rappresenta una svolta fondamentale nel rapporto tra Chiesa e popolo ebraico e pure nel modo di valutare le altre religioni non cristiane (vengono espressamente nominati induismo, buddismo, islam), come ci fa capire l’espressione seguente: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni». E, in particolare, circa i rapporti con l’Islam, dopo aver accennato alle inimicizie dei secoli passati tra cristiani e musulmani, si dice: «Il Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà».
La Dichiarazione viene approvata con 2221 voti a favore e 88 contrari. Struttura: 1: Introduzione; 2: Le diverse religioni; 3: La religione musulmana; 4: La religione ebraica; 5: Fraternità universale (nella foto: l’intestazione latina che precede il testo di Nostra aetate) (continua).
Dal par. 6: I genitori debbono godere di una reale libertà nella scelta della scuola…Lo Stato deve tutelare il diritto dei fanciulli ad una conveniente educazione scolastica, vigilare sulla capacità degli insegnanti e sulla serietà degli studi, provvedere alla sanità degli alunni e in genere promuovere tutto l’ordinamento scolastico, escludendo ogni forma di monopolio scolastico.
Dal par. 7: La Chiesa loda quelle autorità e società civili che, garantendo la giusta libertà religiosa, aiutano le famiglie perché l’educazione dei loro figli possa aver luogo in tutte le scuole secondo i principi morali e religiosi propri di quelle stesse famiglie.
Dal par. 8: La presenza della Chiesa in campo scolastico si rivela in maniera particolare nella scuola cattolica. Suo elemento caratteristico è…di coordinare l’insieme della cultura umana con il messaggio della salvezza…Pertanto questo Santo Sinodo ribadisce il diritto della Chiesa a fondare liberamente e a dirigere le scuole di qualsiasi ordine e grado…e ricorda che l’esercizio di un tale diritto contribuisce moltissimo anche alla tutela della libertà di coscienza e dei diritti dei genitori, come pure allo stesso progresso culturale.
Dal par. 10: La Chiesa ha grande cura delle scuole di grado superiore, specialmente delle Università e delle Facoltà…perché si colga più chiaramente come fede e ragione si incontrino nell’unica verità, seguendo le orme dei Dottori della Chiesa, specialmente di S. Tommaso d’Aquino. L’Università Cattolica…deve promuovere la cultura superiore.
Dal par. 11: Molto si attende la Chiesa dall’attività delle Facoltà di scienze sacre…perché sia favorito il dialogo con i fratelli separati e con i non cristiani, e si risponda ai problemi emergenti dal progresso culturale. Perciò le Facoltà ecclesiastiche promuovano vigorosamente lo sviluppo delle scienze sacre e delle altre ad esse connesse.
(Nella foto: un’immagine di Clemente Alessandrino, teologo del II sec. d.C., autore del Pedagogo, il primo trattato di pedagogia cristiana)
Con Dignitatis humanae e Nostra aetate è una delle tre «Dichiarazioni» del Concilio, promulgata, come Nostra aetate, il 28 ottobre 1965, con 2110 voti a favore e 39 contrari.
Struttura: Proemio; par. 1: Il diritto di ogni uomo all’educazione; par. 2: L’educazione cristiana; par. 3: I genitori, primi educatori; par. 4: L’istruzione catechetica; parr. 5-12: La scuola (distinta in non cattolica, cattolica, superiore); Conclusione.
Dal par. 1: Tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile ad una educazione che risponda al proprio fine, convenga alla propria indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese e insieme aperta a una fraterna convivenza con gli altri popoli, per garantire la vera unità e la vera pace sulla terra. La vera educazione deve promuovere la formazione della persona umana…i fanciulli e i giovani debbono essere aiutati a sviluppare le loro capacità fisiche, morali e intellettuali…debbono anche ricevere una positiva e prudente educazione sessuale. Debbono inoltre essere avviati alla vita sociale, in modo che…contribuiscano al bene comune.
Dal par. 3: I genitori hanno l’obbligo gravissimo di educare la prole, come i primi e i principali educatori di essa…Il compito educativo richiede l’aiuto di tutta la società…Infine il dovere di educare spetta alla Chiesa che, come Madre, deve dare un’educazione tale che tutta la loro vita sia penetrata dello spirito di Cristo, ma nel contempo essa offre la sua opera a tutti i popoli per promuovere la perfezione integrale della persona umana, come anche per il bene della società terrena e per l’edificazione di un mondo più umano.
Dal par. 5: Tra tutti gli strumenti educativi un’importanza particolare riveste la scuola…alla cui attività devono partecipare le famiglie, gli insegnanti, la società civile e tutta la comunità umana (continua).
Dal par. 4: La libertà dei gruppi religiosi
La libertà religiosa comporta pure che i gruppi religiosi non siano impediti di manifestare liberamente la virtù singolare della propria dottrina nell’ordinare la società.
Dal par. 6: Cura della libertà religiosa
Adoperarsi positivamente per il diritto alla libertà religiosa spetta tanto ai cittadini quanto ai gruppi sociali, ai poteri civili, alla Chiesa e agli altri gruppi religiosi…è necessario che a tutti i cittadini e a tutti i gruppi religiosi venga riconosciuto il diritto alla libertà in materia religiosa.
Dal c. II, par. 9: La dottrina della libertà religiosa affonda le radici nella Rivelazione
La Rivelazione fa conoscere la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza, mostra il rispetto di Cristo verso la libertà dell’uomo nell’adempimento del dovere di credere alla Parola di Dio.
Dal par. 10: Libertà dell’atto di fede
Nessuno quindi può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Infatti l’atto di fede è per sua stessa natura un atto volontario, poiché gli esseri umani…non possono aderire a Dio se non prestano a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero.
Dal par. 12: La Chiesa segue le tracce di Cristo e degli apostoli
La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell’uomo e alla Rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce…la persona nella società deve essere immune da ogni umana coercizione in materia religiosa.
Dal par. 13: La libertà della Chiesa
La Chiesa rivendica a sé la libertà in quanto è una comunità di esseri umani che hanno il diritto di vivere nella società civile secondo i precetti della fede cristiana…la libertà religiosa deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli esseri umani e a tutte le comunità e deve essere sancita nell’ordinamento giuridico delle società civili (nella foto: i simboli delle diverse religioni).
Struttura: Proemio; cap. I: Aspetti generali della libertà religiosa; cap. II: La libertà religiosa alla luce della Rivelazione; conclusione.
Soffermiamoci su alcuni passi:
dal c. I, par. 2: Oggetto e fondamento della libertà religiosa
Questo Concilio Vaticano II dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che tutti gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsiasi potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito di agire in conformità ad essa, privatamente o pubblicamente. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la Parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società. A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani sono dalla stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione…Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura.
Dal par. 3: Libertà religiosa e rapporto dell’uomo con Dio
Ognuno ha il dovere e quindi il diritto di cercare la verità in materia religiosa, in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: cioè con una ricerca condotta liberamente (continua).
Può essere interessante soffermarsi un momento sulla formulazione adottata per la promulgazione dei documenti conciliari, già a partire dai primi due del 1963; dopo varie proposte, si opta per quella che troviamo riportata al termine di tutti i sedici testi definitivi, che così dice: «Tutte e singole le cose stabilite in questa *** (la definizione varia a seconda che si tratti di Costituzione, Decreto, Dichiarazione) piacquero ai Padri. E Noi, con la Potestà Apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai venerabili Padri, nello Spirito Santo le approviamo, decretiamo e stabiliamo, e ciò che è stato così sinodalmente stabilito, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio». A ciò segue l’indicazione di luogo, giorno, mese, anno e: «Io Paolo Vescovo della Chiesa Cattolica», più le firme di tutti i Padri.
La formula viene giudicata appropriata ed equilibrata perché con il termine «Potestà» e con i tre verbi successivi si sottolinea il carattere del potere del Papa, ricevuto direttamente da Cristo, e il suo pieno consenso nei confronti di ciò che il Concilio ha approvato; nello stesso tempo, però, l’espressione «unitamente ai Venerabili Padri» dice che «il Concilio è legislatore in unità col Papa, un passo in avanti verso la collegialità», come afferma il teologo Laurantin.
La quarta sessione si apre con la ripresa del dibattito sullo schema della libertà religiosa nelle congregazioni 128, 129, 130, 131, 132 dal 15 al 21 settembre 1965; un mese dopo, nelle congregazioni 153 e 154 del 26 e 27 ottobre si procede con la votazione sui singoli paragrafi del testo,
inclusi gli emendamenti proposti nel dibattito di un mese prima (cfr. anche nn. 64-67), finché solo il 7 dicembre si arriva all’approvazione finale dello schema (voti favorevoli 2308; contrari 70) e alla sua promulgazione (continua).
Dagli accenni alle diverse opinioni espresse durante i dibattiti sugli schemi, svoltisi nelle tre precedenti sessioni, dovrebbe risultare evidente come la redazione finale dei documenti conciliari sia stata il risultato di lunghi e spesso faticosi confronti, rielaborazioni, compromessi, nel tentativo di pervenire alla formulazione di testi che fossero condivisi dal più alto numero possibile di Padri, che avevano visioni e idee inevitabilmente differenti. Tale obiettivo, e la necessità di conseguirlo assolutamente, fu sempre presente agli occhi di Paolo VI e, di fatto, tutti i testi definitivi furono approvati a grandissima maggioranza.
Si è detto sopra (cfr. n. 85) che all’inizio della quarta e ultima sessione restavano ancora undici schemi da discutere, almeno parzialmente, e da approvare: sulla libertà religiosa, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, sulla Rivelazione, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, sull’apostolato dei laici, sull’attività missionaria della Chiesa, sull’educazione cristiana, sull’ufficio pastorale dei vescovi, sul ministero e la vita dei presbiteri, sulla formazione al presbiterato, sul rinnovamento della vita degli ordini religiosi.
Anche nella quarta sessione le discussioni si protrassero a lungo, con intensità e con momenti talvolta di grande tensione, tant’è vero che alcuni schemi, nella loro versione finale, furono approvati soltanto al termine del Concilio. A partire dalla prossima volta vedremo, solo per alcuni di questi documenti, alcuni paragrafi nella loro stesura definitiva, così come oggi possiamo leggerli: per quanto riguarda sia la scelta dei documenti che quella dei paragrafi, si tratterà, evidentemente, di una scelta del tutto soggettiva, anche se giustificata dalla significatività dei passi riportati, con la speranza che la lettura di essi susciti la curiosità e l’interesse ad accostarsi ai testi conciliari nella loro completezza e ricchezza (nella foto: un momento dei lavori conciliari).
Il Papa porta il saluto suo e di tutto il Concilio riunito a Roma per la quarta sessione: il suo messaggio vuol essere «una ratifica morale e solenne dell’ONU che rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale», che deve mostrarsi un’istituzione adeguata alle esigenze del mondo futuro e costituisce per l’umanità «una tappa dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare». I membri dell’ONU si riconoscono e si distinguono gli uni dagli altri poiché riconoscono «come idonea a sedere nel consesso ordinato dei popoli ogni singola nazione» e sanciscono che «i rapporti tra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto». L’ONU esiste per unire le nazioni, per mettere insieme gli uni con gli altri, per essere un ponte tra i popoli. Perciò ora il messaggio di Paolo VI «raggiunge il suo vertice negativo: non gli uni contro gli altri; l’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità: mai più la guerra, mai più la guerra!». Pertanto occorre educare l’umanità alla pace e la prima via per fare ciò è il disarmo, in modo tale da devolvere ai Paesi in via di sviluppo parte del denaro derivante dalla riduzione degli armamenti. E a questo punto il Papa richiama un altro principio costitutivo dell’ONU, che ne rappresenta il suo vertice positivo: l’impegno per la collaborazione fraterna tra i popoli, a cui già Giovanni XXIII esortava nella Pacem in terris. Tutto questo vuol dire proclamare i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo, la sua dignità e libertà, anche quella religiosa; garantire il pane per tutta l’umanità, vincere l’analfabetismo, diffondere la cultura, mettere a servizio dell’uomo le risorse della scienza e della tecnica. Ma ciò richiede una conversione dell’uomo e pensare in maniera nuova la convivenza dell’umanità, che deve reggersi su principi spirituali, il cui fondamento è nella fede nel Dio vivente, rivelato da Cristo e padre di tutti gli uomini.
All’inizio del suo discorso Paolo VI esprime la propria gioia nel constatare che la Chiesa può riunirsi di nuovo, per la quarta e ultima sessione del Concilio Vaticano II, mostrando così ancora una volta di essere veramente cattolica, cioè universale, di nome e di fatto. Il Papa ricorda poi come sia indispensabile ascoltare e lasciarsi guidare dallo Spirito per accogliere la sapienza che solo lui può infondere, necessaria per portare a termine il gravoso lavoro che ancora resta da fare e per ispirarsi sempre al principio dell’amore di Dio. A questo punto Paolo VI dice: « Noi siamo un Popolo, il Popolo di Dio. Noi siamo la Chiesa cattolica. Siamo una società singolare, visibile e spirituale insieme, fondata sull’unità della fede e sull’universalità dell’amore». E un po’ oltre aggiunge: «La Chiesa proclama l’amore. Il Concilio è un atto solenne di amore per l’umanità». E riguardo alla Chiesa, il Papa ribadisce: «Questo Concilio è rivelatore alla Chiesa stessa di una più piena e approfondita coscienza delle ragioni della sua esistenza e di quelle della sua missione per l’umanità». Il pensiero di Paolo VI va poi a quei Padri che, per l’oppressione subita dalla Chiesa cattolica in molti paesi, non possono essere presenti al Concilio, a dimostrazione di «quanto il mondo sia ancora lontano dalla verità, dalla giustizia, dalla libertà e dall’amore, cioè dalla pace», per usare le parole della Pacem in terris di Giovanni XXIII. Infine il Papa ringrazia le commissioni che hanno approntato gli schemi che dovranno essere discussi; annuncia che sarà istituito un Sinodo dei Vescovi che verrà convocato dal Papa perché con lui collabori per il bene della Chiesa; annuncia che, su invito dell’ONU, si recherà a New York nella sede delle Nazioni Unite per portarvi un messaggio di pace.
Solo all’inizio del 1965 viene comunicata la data ufficiale di apertura dell’ultimo periodo del Concilio: 14 settembre. Il lavoro da svolgere nei mesi dell’intersessione è ancora molto: vi sono ben 11 argomenti da affrontare, anche se diverso è il loro livello di elaborazione e di discussione a cui si è giunti. Precisamente: gli schemi sulla libertà religiosa, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, sull’attività missionaria della Chiesa, sul ministero e la vita dei presbiteri, richiedono che se ne continui l’esame, prima della votazione; lo schema sull’apostolato dei laici e quello sulla Rivelazione dovranno essere solo votati nel loro insieme; infine dovranno essere votati gli emendamenti di altri cinque schemi, sui quali il Concilio ha già discusso: l’ufficio pastorale dei vescovi, il rinnovamento della vita degli ordini religiosi, la formazione al presbiterato, l’educazione cristiana, le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. Per tale motivo durante questo periodo si susseguono numerose le riunioni delle commissioni incaricate (nella foto: discussione tra alcuni teologi), al fine di approntare, entro settembre, gli schemi aggiornati con le correzioni e le modifiche proposte. I primi cinque, sopra elencati, a giugno vengono inviati ai Padri perché ne prendano visione per tempo; anche le conferenze episcopali di molti paesi si riuniscono per continuare l’esame di alcune questioni importanti da approfondire.
La commissione di coordinamento si riunisce tre volte per fissare il calendario della futura sessione e l’ordine dei lavori relativo ai dibattiti e alle votazioni degli schemi. Va ricordato che, nel frattempo, domenica 7 marzo 1965 si inizia a celebrare la messa secondo il rito rinnovato della Costituzione Sacrosanctum Concilium, con molte parti in lingua volgare e l’altare rivolto verso l’assemblea.
Alcuni fatti imprevisti, relativi ai testi da approvare, si verificano nell’ultima settimana della terza sessione del Concilio (14-21 novembre 1964), creando molta agitazione tra i padri conciliari. Tra i documenti da votare per l’approvazione definitiva c’è quello sulla libertà religiosa (De libertate), ma viene inaspettatamente comunicato all’assemblea che, su richiesta di alcuni vescovi, la votazione è rimandata alla sessione successiva poiché lo schema ha subito notevoli cambiamenti rispetto alla stesura precedente e, perciò, esso richiede un tempo maggiore di riflessione.
In merito al testo sull’ecumenismo (De oecumenismo), Paolo VI interviene tre volte nell’ultima settimana con 19 emendamenti da apportare a un documento già approvato dall’assemblea: pertanto nel testo vengono introdotte d’autorità delle modifiche senza che l’assemblea abbia neppure modo di discuterne. Tutto ciò crea sconcerto e giudizi negativi tra molti Padri e anche tra gli osservatori delle Chiese protestanti e ortodosse, timorosi di una attenuazione dei propositi ecumenici della Chiesa cattolica; tuttavia, a giudizio del teologo Congar, il nucleo del decreto è rimasto intatto: «Ho dunque riletto attentamente i tre capitoli del De oecumenismo. La loro sostanza e il loro tenore è immutato. Il testo non è impoverito».
Viene presentata, «per autorità superiore (il Papa stesso), una nota explicativa praevia», in base alla quale «la dottrina esposta nel c. III dello schema De Ecclesia deve essere spiegata e capita secondo l’intenzione e il linguaggio della nota». Il c. III, a lungo discusso in Concilio, affronta il tema del collegio dei vescovi, dei loro poteri e prerogative, dei rapporti tra il papa e l’episcopato: su questi aspetti la nota explicativa dà la propria interpretazione e si precisa che essa comparirà, insieme allo schema De Ecclesia che sta per essere votato nel suo insieme, negli Atti del Concilio Vaticano II.
(Nelle immagini: i tre documenti approvati alla fine della terza sessione)
Paolo VI (nella foto) esprime la sua soddisfazione con queste parole: «È stata studiata e descritta la dottrina sulla Chiesa; è stata così compiuta l’opera dottrinale del Concilio Vaticano I; è stato esplorato il mistero della Chiesa e delineato il disegno divino della sua costituzione». Il punto più difficile ha riguardato la dottrina sull’Episcopato, tuttavia la promulgazione del De Ecclesia «nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimente. Soltanto, ciò che era semplicemente vissuto ora è espresso; ciò che era incerto è chiarito; ciò che era in parte controverso, ora giunge a serena formulazione». Il Papa aggiunge poi che ci si può dire soddisfatti sia per l’onore che il testo tributa al popolo di Dio, sia per la dignità che viene riconosciuta ai vescovi e alla loro funzione, sia perché viene ampiamente dichiarato il primato affidato da Cristo a Pietro e ai suoi successori: è infatti molto importante che il riconoscimento delle prerogative del Papa sia esplicitamente espresso. Tutto ciò serve a rafforzare la corresponsabilità e la collaborazione tra il Papa e l’episcopato, che trova nel successore di Pietro il suo centro e il suo capo. Viene poi annunciato che il Concilio si concluderà con la quarta sessione e si esprime l’augurio che la Costituzione sulla Chiesa, integrata dal Decreto sull’Ecumenismo, anch’esso appena approvato, venga considerata con favore dai fratelli cristiani tuttora separati. A questo proposito, il Papa ringrazia gli Osservatori delle Chiese cristiane separate per la loro partecipazione, quindi accenna anche ai due schemi sulla libertà religiosa e sulla Chiesa nel mondo, tuttora in discussione, che verranno ripresi nell’ultima sessione. Infine Paolo VI proclama Maria Santissima Madre della Chiesa, cioè di tutto il popolo di Dio, fedeli e pastori.
Il par. 25 dal titolo «Il consolidamento della pace» viene giudicato positivamente da quasi tutti i Padri intervenuti, i quali chiedono però che, alla luce della Pacem in terris di Giovanni XXIII, si insista di più sulla necessità di cercare le vie per promuovere la pace, di pregare per essa, di impegnarsi per l’abolizione delle armi e lo sviluppo dei popoli, anche grazie al rafforzamento delle organizzazioni internazionali come l’ONU. In particolare, sempre in linea con l’enciclica di Roncalli, si chiede una condanna netta ed esplicita delle armi nucleari, a causa delle quali ormai il concetto di «guerra giusta» è insostenibile: nessun principio morale può giustificarne l’uso, benché il vescovo di Liverpool, Beck, affermi che esse possono essere utilizzate in una guerra solo difensiva contro obiettivi certi.
A questo punto la discussione su questo schema si conclude con un intervento di Guano per chiarire che esso sarà ripreso dalla commissione mista per le opportune integrazioni. Nelle congregazioni successive (116-127), fino al 20 novembre 1964, si discutono gli schemi relativi ai seguenti temi: l’attività missionaria della Chiesa, la vita religiosa, la formazione presbiterale, l’educazione cristiana, il matrimonio, la libertà religiosa. Continua anche il dibattito sulla Chiesa, sull’ecumenismo, sulle Chiese orientali: dopo momenti talvolta di aspro confronto tra le diverse visioni (soprattutto in merito al De Ecclesia), gli schemi di questi tre ultimi argomenti vengono approvati alla fine della 3^ sessione (21 novembre 1964) rispettivamente con i seguenti voti: 2151 a favore, 5 contrari; 2054 a favore, 64 contrari; 1964 a favore, 135 contrari. Essi vanno così ad aggiungersi ai due approvati alla fine della 2^ sessione e dalle loro parole iniziali sono detti, rispettivamente, Lumen gentium, Unitatis redintegratio, Orientalium Ecclesiarum.
Nelle tre congregazioni successive, fino al 5 novembre, si discute sui paragrafi 22, 23, 24 del c. 4 dedicati, rispettivamente, alla cultura, alla vita economica e sociale, alla solidarietà tra i popoli, mentre il giorno 9 si esamina il par. 25 sulla pace. Alcuni interventi sul par. 24: J. Norris, uditore laico presidente della commissione cattolica internazionale per le migrazioni, evidenzia il grande divario fra le poche nazioni ricche, di tradizione cristiana, che, pur avendo solo il 16% della popolazione mondiale, detengono il 70% delle ricchezze, e le molte in cui un enorme numero di persone vive in uno stato di povertà quasi sub-umana. È perciò necessario che tutti i cattolici si impegnino nella lotta contro la fame e la povertà, promuovendo anche iniziative sul piano sociale e politico, per ridurre le ingiustizie e le disparità economiche presenti nel mondo. P. Zoungrana (Alto Volta) (nella foto), a nome di 70 vescovi africani e brasiliani, dice: «Desideriamo che il Concilio esponga in modo più evidente quale sia lo stato economico e sociale dei paesi del terzo mondo e mostri quale nuovo ordine, fondato su una nuova etica, sia necessario. Le nazioni ricche ricordino sempre che il superfluo è del povero, e ciò per un dovere di giustizia. Come la legge civile condanna chi non aiuta gli uomini in pericolo di morte, così, dice S. Basilio, chi, pur potendo porre rimedio a un male, per avidità non lo farà, sia condannato alla stessa pena di un uomo che uccida di propria mano». Pildain Zapiain (Canarie): il divario fra nazioni ricche e povere è un «crimine orrendo», a causa del quale lo stesso nome di Dio è bestemmiato tra i popoli. S. Tommaso dice: «Nella necessità tutti i beni sono comuni» e S. Ambrogio: «Il pane che tu trattieni è degli affamati»; perciò nessuna nazione ha il diritto di sprecare beni in cose superflue, quando in altri popoli vi sono uomini in estrema necessità (continua).
Un paragrafo su cui pure si registrano molti interventi, il 29 ottobre alla congr. 112, è il n. 21 del c. 4: «La dignità del matrimonio e della famiglia». Significativi, in particolare, i discorsi dei card. Léger, Suenens e del patriarca Maximos IV. Léger: l’amore coniugale è un vero fine del matrimonio e un bene per se stesso, ma su questo punto lo schema è troppo esitante; ciò deve essere invece affermato apertamente, se non si vuole che permanga quel timore che da molto tempo ha pervaso la teologia del matrimonio: i coniugi infatti si considerano non solo come procreatori, ma anche come persone che si amano per se stesse. E questo fine dell’amore tra i coniugi è valido e legittimo anche quando esso non è ordinato alla procreazione: fin dall’antichità la Chiesa stessa ha considerato legittima l’unione dei coniugi anche quando la procreazione, per ragioni diverse, è impossibile.
Anche Suenens ritiene che sia stato sottolineato eccessivamente il fine della procreazione, sempre considerato primario, a scapito dell’amore coniugale, ritenuto secondario: essi sono entrambi due verità fondamentali basate sulla Scrittura, che la Chiesa deve integrare in una sintesi nuova e feconda.
Maximos IV (nella foto) interviene sulla questione del controllo delle nascite: c’è una frattura, in merito ad essa, tra la dottrina della Chiesa e la pratica contraria della maggioranza delle famiglie cristiane, molte delle quali ormai vivono in rottura con la legge della Chiesa e in una angoscia costante. Perciò si chiede Maximos IV: «La posizione ufficiale della Chiesa su questo argomento non dovrebbe essere rivista alla luce delle nostre attuali conoscenze teologiche, mediche, psicologiche e sociologiche? Certe posizioni ufficiali sono debitrici di concezioni sorpassate e forse il frutto della psicosi di persone celibi, per le quali il rapporto coniugale non è tollerato che in vista del bambino» (continua).
Dopo l’approvazione dello schema generale, dal 26 ottobre al 5 novembre 1964, cioè dalla 109^ alla 115^ congregazione, si svolge la discussione sui quattro capitoli dello schema stesso. Diversi interventi ripetono osservazioni già fatte sul testo nel suo insieme, altri invece sottolineano nuovi aspetti, come la necessità che la Chiesa mostri un atteggiamento positivo verso la scienza e dialoghi con essa, poiché le verità della scienza e le verità di fede non possono essere tra loro in conflitto; è altrettanto necessario tener conto dei valori condivisi anche dai non cristiani e dagli atei, come lo spirito di fratellanza e l’amore della giustizia. La Chiesa perciò deve mostrare solidarietà con l’umanità e non deve temere di lasciarsi coinvolgere nelle questioni e nelle preoccupazioni del mondo. Si insiste di nuovo sulla necessità di promuovere nella Chiesa lo spirito di povertà, visto come una condizione indispensabile per agire con efficacia nel mondo; occorre inoltre che i cristiani si liberino dallo spirito legalistico che spesso caratterizza il loro comportamento e che vivano secondo uno spirito d’amore piuttosto che con la paura delle punizioni. Molti interventi si registrano sul c. 4 dedicato alle responsabilità dei cristiani nel mondo, in particolare sul par. 20 di cui si apprezza il fatto che esso inizi dall’affermazione della dignità umana, alla quale però occorre dare un maggior fondamento teologico. Di alcuni seri problemi il testo dovrebbe parlare in modo più ampio: l’esigenza di una maggiore giustizia sociale, le difficili condizioni di vita di molti giovani con disabilità fisiche e mentali, la discriminazione razziale, la necessità di promuovere, in ambito sia civile che ecclesiale, la dignità delle donne, in tanti paesi spesso non riconosciuta, alle quali la Chiesa stessa dovrebbe affidare più responsabilità al proprio interno (continua).
S. Henriquez (Cile) e altri Padri giudicano necessario dare una risposta all’umanesimo ateo e all’ideologia marxista, dicendo chiaramente che anche il mondo materiale fa parte dell’intero piano della redenzione operata da Cristo, come dice S. Paolo; il lavoro quotidiano degli uomini, volto a migliorare le condizioni dell’esistenza dell’umanità, rientra in questo piano di salvezza totale dell’uomo. Pertanto l’incarnazione di Cristo nel mondo e la collaborazione tra Chiesa e mondo devono ispirare tutto lo schema.
Un tema molto sentito soprattutto dai vescovi africani e latino-americani è quello della povertà: secondo il card. Landazuri (Perù) (nella foto, con Paolo VI) e Soares de Rezende (Mozambico) occorre affrontare la questione socio-economica, a cui la Chiesa deve dare una risposta alla luce del Vangelo, come alternativa cristiana ai principi del marxismo. « Il mondo odierno e soprattutto il mondo non cristiano – dice Soares – riconoscerà la Chiesa se essa si presenta come Chiesa povera. Perciò la Chiesa oggi deve essere non solo Chiesa dei poveri, ma anche Chiesa povera. Ma la Chiesa non è povera se tutti noi non professiamo la povertà non solo a parole ma anche nei fatti».
Il vescovo africano della Guinea, Tchidimbo, attribuisce la mancanza di attenzione alla povertà e ad altre ingiustizie al fatto che «lo schema sembra pensato per l’Europa, forse per l’America, ma non abbastanza per la terza parte del mondo. Non ho trovato alcuna menzione dei problemi dei popoli africani, come il sottosviluppo e la colonizzazione».
Meouchi (Libano) sottolinea un altro aspetto: non emerge a sufficienza il senso della comunità ecclesiale, del popolo di Dio in cammino; lo schema pecca perciò di individualismo. Inoltre secondo lui e altri Padri, tra cui il card. Bea, il testo è privo di un solido fondamento teologico e biblico e dà l’impressione che compito della Chiesa sia risolvere i problemi del mondo attuale (continua).
Guano riconosce che lo schema non è ancora soddisfacente e ha bisogno di emendamenti, ma la struttura è valida; accenna anche ai contributi di molti laici di cui ricorda la competenza.
Dopo di ciò ha inizio, nella stessa congr. 105, il dibattito sullo schema generale, che continua nelle congr. 106, 107, 108, dal 20 al 23 ottobre 1964. In tutto parlano 42 padri: tranne il giudizio di tre di essi, quello di tutti gli altri è favorevole, a cominciare dall’apprezzamento per la serietà e l’impegno con cui la commissione ha svolto il suo lavoro; lo schema può costituire una buona base di discussione, pur prestandosi a numerose critiche e proposte di integrazione. I cardd. Liénart e Spellman sottolineano che il testo affronta temi nuovi mai prima toccati, dimostrando che il Concilio intende ascoltare gli uomini e tentare di dare una risposta evangelica ai loro interrogativi. Lercaro afferma che lo schema risponde alle indicazioni di Giovanni XXIII e di Paolo VI sulla necessità di un Concilio pastorale che parli agli uomini d’oggi, anche se non si devono alimentare troppo le attese riposte in questo schema, che non può essere la risposta definitiva della Chiesa ai problemi del mondo. Léger chiede che alcuni esperti, uomini o donne, illustrino i problemi della povertà e della fame nel mondo, della famiglia, della pace, perché occorre ascoltare da coloro che vivono nella realtà profana quali sono i problemi reali e qual è la loro opinione.
Circa la necessità del dialogo col mondo, L. Shehan (USA) (nella foto) osserva: «Non dobbiamo temere che ci si rinfacci di pervertire la dottrina della Chiesa se tentiamo di stabilire un dialogo tra Chiesa e mondo. La tradizione autentica va conservata, ma la Chiesa, come dice Paolo VI in Ecclesiam suam, progredisce sempre più nella consapevolezza della propria natura, nella conoscenza del Vangelo e della sua applicazione ai “segni dei tempi”» (continua).
Anche il testo sull’apostolato dei laici verrà ripreso e approvato definitivamente nella quarta e ultima sessione del Concilio. Alla 105^ congregazione del 20 ottobre 1964 viene presentato ai Padri dal card. Cento lo schema XIII sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Questa la struttura:
Proemio: la Chiesa è presente al mondo di oggi ed è sensibile ai «segni dei tempi»; c.1: «La vocazione integrale dell’uomo»; c. 2: «La Chiesa al servizio di Dio e degli uomini»; c. 3: «Il comportamento dei cristiani nel mondo»; c. 4: «I compiti più importanti per i cristiani del nostro tempo»; conclusione.
Seguono cinque appendici: 1^: «La persona umana nella società»; le altre quattro corrispondono ai parr. del c. 4: «Il matrimonio e la famiglia», «La giusta promozione del progresso culturale», «La vita economica e sociale», «La comunità dei popoli e la pace». Esse devono servire come strumenti di lavoro per lo studio dello schema, elaborato da una commissione mista formata da membri della commissione teologica e di quella per l’apostolato dei laici. Il card. Cento, nel presentare il testo, dice: «Nessun altro schema ha suscitato un’attesa così grande e diffusa», perché ci si attende che la Chiesa, luce dei popoli, entri in dialogo con gli uomini del suo tempo e risponda ai bisogni e alle aspirazioni del mondo. E. Guano (nella foto), vescovo di Livorno, interviene subito dopo e fa una relazione più dettagliata sullo schema stesso: la sua finalità è far conoscere quale sia il pensiero della Chiesa su «temi e problemi che oggi toccano a fondo la coscienza degli uomini» e quale contributo i cristiani possano dare ad essi; perciò «lo stile e la lingua del documento devono essere adeguati al pensiero e al linguaggio degli uomini d’oggi». Tra le molte difficoltà, quella dei rapporti tra Chiesa e mondo: la Chiesa non è del mondo, ma ne ama i sani valori, perciò chiede di essere ascoltata e di conoscere il mondo (continua).
Donze (Francia): lo schema parla adeguatamente di coloro che esercitano l’apostolato, ma non a sufficienza delle persone che ne sono l’oggetto, che vanno inserite nel loro ambiente, nelle loro condizioni di vita e nel loro contesto sociale, come insegnano la sociologia e la psicologia. Cheng (Formosa): l’esaltazione della dignità dei laici, fatta per la prima volta da un Concilio, non significa che i laici devono governare la Chiesa con la gerarchia, ma che è loro diritto e dovere collaborare con essa nell’esercizio dell’apostolato, che sarà efficace solo se accompagnato dalla pratica di una vita cristiana. P. Keegan, presidente dell’Associazione mondiale dei lavoratori, parla a nome degli uditori e delle uditrici: lo schema è il risultato della nuova coscienza che la Chiesa ha di se stessa e della scoperta, da parte di uomini e donne, della loro responsabilità nell’attività apostolica, che ha come fondamento il battesimo comune a tutti i cristiani. Ma come rendere consapevoli i laici cattolici di questa loro responsabilità nell’apostolato? Questo è compito degli educatori: genitori, insegnanti, sacerdoti, organizzazioni cattoliche, e richiede un dialogo continuo tra gerarchia e laici. Hengsbach (Germania), che ha presentato lo schema, conclude la discussione sintetizzando i punti salienti che ne sono emersi: una maggiore corrispondenza dello schema con il capitolo del De Ecclesia dedicato ai laici; un’esposizione più chiara dei fondamenti teologici dell’apostolato dei laici; la necessità di affermare in modo chiaro il ruolo, l’autonomia e la responsabilità dei laici nello svolgere apostolato negli ambiti di loro specifica competenza; l’importanza delle varie forme di associazioni cattoliche e, soprattutto, dell’Azione cattolica, che devono lavorare in armonia con la gerarchia; la necessità di coinvolgere di più i laici nella revisione del testo definitivo dello schema.
Nella foto: l’Esortazione apostolica del 1988, che si rifà al testo conciliare
McGrath (Panama): il termine «apostolato» deve essere spiegato meglio e fondato sulla dottrina del sacerdozio di Cristo, a cui tutti i fedeli partecipano mediante il battesimo, come è detto nel De Ecclesia. Va affermato il valore dell’azione e della responsabilità dei laici nelle attività temporali, insieme alla necessità della formazione religiosa, di cui deve occuparsi l’Azione Cattolica. Carter (Canada): il testo presenta una mentalità spiccatamente clericale, è opera di una commissione per l’apostolato dei laici composta solo da chierici; esso non è il risultato di un dialogo con i laici, ma un discorso di chierici ad altri chierici, pertanto va rifatto con l’aiuto di laici capaci e competenti in tale ambito. Seper (Zagabria): lo schema dovrebbe essere il completamento di ciò che si dice dei laici nel De Ecclesia. In ogni parrocchia si dovrebbe organizzare obbligatoriamente un’assemblea settimanale di tutti gli adulti per discutere con il clero i problemi della comunità. Capucci (Aleppo di Siria): la Chiesa deve ripudiare il clericalismo e aprirsi di più ai laici, trattarli da adulti responsabili, avere fiducia nella competenza e nel senso ecclesiale di coloro che in essa sono stati formati. L. Errazuriz (Cile) delinea le qualità che l’apostolato dei laici deve avere per risultare efficace: esso deve rendere manifesto che Dio si è rivelato attraverso l’incarnazione del Verbo nella Chiesa e attraverso l’opera dell’uomo nella creazione; deve incarnarsi nell’esistenza vitale e storica dell’umanità, condividere i problemi dell’ambiente in cui opera, conoscerne le condizioni e adattare ad esse la propria azione; deve mettere in evidenza i rapporti tra Chiesa e mondo, la cui unità si rispecchia nella coscienza del laico apostolo, che è membro della Chiesa e della società civile; deve far capire che nessuna delle attività umane viene trascurata dalla Chiesa (continua).
Nella foto: un’edizione contenente il documento conciliare sull’apostolato dei laici
Fernandes (India): il significato dell’apostolato dei laici va posto in relazione alla lotta mondiale contro la fame, la povertà e per la giustizia sociale. Duval (Algeri) parte dalle esperienze dei laici cristiani che vivono in mezzo ai non cristiani, con i quali hanno rapporti in ambito culturale, morale, religioso, e ai quali non solo hanno qualcosa da dare, ma anche da ricevere. D’Souza (India) critica lo schema ed esorta a trattare i laici come adulti: sicuramente nulla deve essere fatto senza il vescovo, come dice Ignazio di Antiochia, ma il popolo di Dio non è uno Stato totalitario, nel quale ogni cosa è ordinata dall’alto; il principale impedimento alla riforma ecclesiastica è il clericalismo. De Smedt (Belgio): lo schema è valido, ma deve essere riaffermata l’importanza e il rispetto della libertà religiosa altrui da parte dei laici nello svolgimento del loro apostolato. La fede sarà tanto più cristiana e cattolica, quanto più libera e personale nella sua adesione a Dio e alla Chiesa. K. Wojtyla (nella foto: il futuro papa ai tempi del Concilio) giudica positivamente lo schema; il principio del dialogo, anche dentro la Chiesa, deve essere affermato come costitutivo per l’apostolato. Bettazzi (Bologna): la vita e l’apostolato cristiani sono, per la natura stessa della Chiesa, comunitari; perciò l’apostolato non può essere ridotto a un fatto individuale. Occorre esortare i laici ad assumere le proprie responsabilità e trattarli come figli maggiori, non assoggettarli alla tutela dei vescovi. Tarancon (Spagna): nella Chiesa la figura del laico deve apparire ben chiara accanto a quella del chierico, in modo da completare quanto detto nel De Ecclesia, cioè che esiste un’attività propria dei laici battezzati, nella quale la direzione e la responsabilità è dei laici stessi, che agiscono per diritto proprio. Tutto ciò va espresso chiaramente nello schema (continua).
Conclusa momentaneamente l’analisi del De Revelatione, che verrà ripresa nell’ultima sessione, le cinque congregazioni successive (96^-100^) vengono dedicate alla discussione dello schema sull’ l’apostolato dei laici, mentre un numero più consistente di esse viene riservato a quello che allora era lo schema 13, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, che diverrà, alla fine, la Costituzione Gaudium et spes. Pertanto nelle successive puntate relative a questa terza sessione, che si concluderà il 21 novembre 1964 con la 127^ congregazione, ci soffermeremo in particolare su questi due ultimi schemi, limitandoci, per gli altri argomenti trattati in Concilio, solo a qualche accenno.
Lo schema De apostolatu laicorum viene presentato il 6 ottobre alla fine della 95^ congregazione ed è suddiviso in 5 capitoli:
1 – La vocazione dei laici all’apostolato; 2 – Comunità e ambienti di vita (la famiglia, le comunità ecclesiali, cioè parrocchia e diocesi, gli ambiti di vita propri dei laici); 3 – Le finalità dell’apostolato (la conversione degli uomini a Dio, la forma cristiana dell’ordine terreno); 4 – Le forme associative (significato dell’associazione, le varie forme organizzative, con particolare attenzione all’Azione cattolica); 5 – Principi dell’ordinamento (il rapporto tra l’apostolato dei laici e la gerarchia).
Il 7 ottobre si apre la discussione:
Ritter (USA) critica lo spirito clericale dello schema e ritiene che vada più evidenziata la spiritualità specifica dei laici. Sani (Indonesia): invece di elencare gli elementi dell’apostolato dei laici, si dovrebbe iniziare con la descrizione della vita dei laici nel mondo d’oggi, da cui far emergere le esigenze dell’apostolato, che va svolto nell’ambito dei propri compiti mondani (continua).
Nella foto: un francobollo delle Poste Vaticane dedicato al Congresso sull’apostolato dei laici a due anni dalla fine del Concilio
Vediamo ora alcuni altri interventi sul De Revelatione durante le congregazioni 92-95.
Il card. Meyer (USA) valuta positivamente lo schema, ma anch’egli sottolinea la necessità di mettere in evidenza come Dio, attraverso la parola della Scrittura, esprime se stesso e si rivolge all’autore ispirato per stabilire una comunicazione con gli uomini. Il card. Bea esprime soddisfazione soprattutto per la forma positiva dell’esposizione, che è più convincente della condanna degli errori, e per il modo tipicamente biblico della presentazione, diversamente dalla precedente stesura.
Volk (Magonza) (nella foto) approva lo schema, ma sottolinea il fatto che Dio nella sua rivelazione non comunica singole verità come tali, ancora sconosciute, ma si comunica in esse; così l’uomo, accogliendo nella fede le verità rivelate, non offre a Dio solo l’intelletto e la volontà, ma se stesso e la sua vita; inoltre la Rivelazione non solleva solo problemi scientifici, ma nutre la vita spirituale, al cui servizio deve porsi la teologia. Butler, presidente della Congregazione dei Benedettini inglesi, sostiene la libertà della ricerca esegetica ed invita i Padri a non aver paura della verità critico-scientifica, «sulla base della quale possiamo entrare in dialogo con gli esegeti non-cattolici e preparare la via ad una fede cristiana adulta e matura». Simons (India) tocca il tema dell’ispirazione divina della Scrittura: essa non va intesa nel senso che Dio ha ispirato agli agiografi tutte le cose da dire, una per una, preservandoli da ogni errore; piuttosto, mediante gli agiografi e la loro libertà di scrivere ciò che essi stessi intendevano, e nonostante i loro errori, la vera divina ispirazione si estende soltanto alla intenzione di Dio di rivelare se stesso e la sua volontà di salvare gli uomini, divenuta sempre più chiara e piena, fino a Gesù Cristo.
Nella 91^ congregazione del 30 settembre 1964 si riprende la discussione sullo schema della divina Rivelazione, nel frattempo ampiamente rielaborato, che due anni prima, durante la prima sessione, era stato ritirato dall’ordine del giorno per decisione dello stesso Giovanni XXIII (cfr. n. 23).
Questa la nuova suddivisione in capitoli dello schema:
1 – La Rivelazione; 2 – La trasmissione della Rivelazione divina; 3 – L’ispirazione e l’interpretazione della Sacra Scrittura; 4 – L’Antico Testamento; 5 – Il Nuovo Testamento; 6 – La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.
Il vescovo di Firenze, E. Florit (nella foto)*, presenta la relazione sui cc. 1-2, e gli interventi successivi si dichiarano per lo più favorevoli alla nuova stesura del testo, pur con alcune osservazioni: Shehan (Baltimora), per esempio, sottolinea che va meglio chiarito il ruolo dell’autore umano della Scrittura, che non va intesa come una dettatura fatta da Dio, ma come una rivelazione che l’autore umano riceve, interpreta e comunica al popolo di Dio. Guano (Livorno) apprezza in particolare il fatto che la Rivelazione venga presentata come un’azione di Dio che non parla solo all’intelletto, ma riguarda tutto l’uomo; perciò l’atto di fede comporta l’adesione di tutto l’uomo a un Dio che lo ama. Tradizione non è solo trasmissione di un insegnamento, ma tutto ciò che «la Chiesa ha ed è, l’intera vita della Chiesa». Zoungrana (Alto Volta), a nome di 66 vescovi africani, elogia il fatto che il c. 1 veda la Rivelazione fondamentalmente nello stesso Cristo, in cui risiede la pienezza della verità, e ciò è conforme alla natura pastorale del Concilio e all’uomo d’oggi: «La mentalità religiosa contemporanea è prevalentemente personalistica…verità da credere e precetti da adempiere richiedono di essere considerati maggiormente nel loro rapporto con una persona vivente».
Sicuramente, però, la questione più scottante e dibattuta, è quella relativa all’accusa di «deicidio» mossa agli ebrei. Alcuni Padri giudicano negativamente il fatto che dal testo attuale, rispetto a quello presentato nella sessione precedente, sia stata eliminata l’affermazione secondo cui gli ebrei non possono essere accusati di deicidio né essere ritenuti un popolo maledetto e abbandonato da Dio: infatti, secondo la teologia cattolica, tutti gli uomini, con i loro peccati, sono stati causa della morte di Cristo. Dal punto di vista storico, poi, tra gli ebrei di allora soltanto alcuni e i loro capi ne hanno voluto la condanna: quindi non è neppure possibile accusare di ciò tutto il popolo ebraico di quel tempo e tanto meno gli ebrei dei secoli successivi e quelli attuali. Cristiani ed ebrei, inoltre, hanno in comune la stessa storia della salvezza e si richiamano allo stesso padre Abramo. La Dichiarazione è ritenuta necessaria anche per condannare le persecuzioni religiose e razziali che per secoli hanno colpito gli ebrei, fino alla recente tragedia della Shoah.
Anche questa Dichiarazione, come quella sulla libertà religiosa, dovrà essere ripresa nell’ultima sessione del Concilio, dato che dall’inizio di ottobre le congregazioni iniziano a discutere gli schemi dedicati ad altri argomenti ancora da affrontare. Tuttavia, nel mese di ottobre le due Dichiarazioni sono oggetto di confronto e scontro molto aspro all’interno delle commissioni e degli organismi preposti alla revisione dei due testi, che incontrano una durissima opposizione da parte della minoranza conservatrice dei Padri conciliari; infatti le speranze del Segretariato per l’unità dei cristiani in una loro approvazione da parte del Concilio entro la fine della terza sessione, andranno deluse e, per la promulgazione della Dichiarazione De libertate religiosa, bisognerà attendere addirittura il 7 dicembre 1965, penultimo giorno del Vaticano II.
Nella foto: la visita di Papa Francesco alla sinagoga di Roma nel 2016
Con la 89^ congregazione del 28 settembre 1964 si conclude il dibattito sulla Dichiarazione intorno alla libertà religiosa (che verrà ripresa nell’ultima sessione) e si apre quello sugli Ebrei: il capitolo che, nello schema sull’ecumenismo, era stato inserito come 4° dedicato appunto agli Ebrei e illustrato dal Card. Bea nella 2^ sessione, ora viene ripresentato dallo stesso Cardinale come una Dichiarazione distinta da quello schema, col titolo De Iudaeis et de non christianis. Il testo, notevolmente modificato, rispetto a quello precedente, durante la 2^ intersessione, è oggetto di dibattito anche durante le congregazioni 90^ e 91^ del 29 e 30 settembre.
I numerosi interventi esprimono per lo più una valutazione positiva sulla necessità e sul contenuto della Dichiarazione, anche se i Patriarchi del Medioriente la ritengono inopportuna: infatti, sebbene il Card. Bea nella sua presentazione abbia sottolineato il fatto che essa è nata da motivazioni esclusivamente religiose ed ecumeniche e non politiche, i vescovi orientali temono che simile Dichiarazione possa essere interpretata dai Paesi arabi, ostili allo Stato di Israele, come una sorta di riconoscimento politico dato ad esso da parte del Concilio. Ma ciò causerebbe serie difficoltà pastorali e gravi pericoli per i cristiani presenti in quei paesi a maggioranza musulmana.
Alcuni Padri osservano invece che, come si parla degli ebrei, bisognerebbe parlare, qui o in una Dichiarazione distinta, anche delle altre religioni non cristiane, come buddismo, induismo e religione musulmana, che coinvolgono milioni di persone e meritano di essere considerate tutte con attenzione e rispetto. (continua)
Nella foto: la visita di Papa Francesco alla sinagoga di Roma nel 2016
Altri interventi a favore:
Ndungu (Uganda): la Chiesa deve difendere la libertà per tutti gli uomini. Non si tratta di proclamare il diritto dell’errore al rispetto, ma il diritto della persona alla ricerca e alla professione della propria verità religiosa.
Molto significativo l’intervento di Garrone, vescovo di Tolosa: la Dichiarazione presenta il tema della libertà religiosa in termini molto diversi, che possono sembrare addirittura contraddittori, rispetto al modo con cui la Chiesa ne ha parlato nei secoli passati. La contraddizione è però soltanto apparente, non reale, se si tiene conto di quanto segue: è mutata profondamente la materia, cioè le condizioni della vita umana nella società: la nozione di Stato è molto mutata rispetto al Medioevo; il bene comune va oggi definito in riferimento al mondo intero; la società è pluralistica, con confessioni diverse e con forme di ateismo; e soprattutto, con il progresso nella comprensione del Vangelo, concetti come dignità e uguaglianza tra gli uomini, libertà, amore, giustizia e rispetto reciproco, sempre più sono inscritti come valori fondamentali nei cuori degli uomini. E’ mutato anche il modo di considerare la materia: per es. il modo con cui oggi, circa la libertà, si deve agire verso le persone, nella Chiesa o fuori di essa, religiose o no. Perciò la Chiesa forma il proprio giudizio alla luce di questi mutamenti: i principi non cambiano, ma cambia il contesto storico e il modo con cui essi possono essere attuati. «La Chiesa non nega anche che in passato il suo modo di agire non sia sempre stato concorde a questa dottrina! Domanda invece che si tenga conto del contesto sociale di ciascun tempo affinché sia formulato un giusto giudizio, e anche del progresso necessario che richiede tempo nella percezione delle nozioni morali. Ma se alcune azioni sono state imperdonabili, la Chiesa umilmente non esita a pentirsene».
Altri interventi contrari alla libertà religiosa:
M. Lefebvre (Francia): la Dichiarazione è impregnata di relativismo e avrebbe conseguenze gravi in campo religioso, morale, politico. La libertà non è un valore assoluto perché può servire anche al male.
Temino (Spagna): l’idea che tutte le religioni e comunità religiose abbiano gli stessi diritti e siano degne della stessa considerazione sociale, non concorda con la dottrina del Vaticano I né con la Rivelazione.
Granados (Spagna): il diritto all’indiscriminata propaganda della verità e degli errori religiosi è dottrina nuova nella Chiesa. La dottrina tradizionale, da Leone XIII a Pio XII, insegna che tale diritto spetta alla verità, all’errore solo la tolleranza, se così esige il bene comune.
Interventi a favore:
Card. Léger (Montreal): lo schema corrisponde ai bisogni attuali. La libertà religiosa è un diritto comune ai cristiani e ai non cristiani, a credenti e atei, è un diritto intangibile di ogni persona nell’esercizio della sua ragione.
Card. Cushing (Boston) parla a nome di quasi tutti i vescovi U.S.A. che approvano il testo: la libertà religiosa è un diritto fondamentale della persona e la Chiesa Cattolica deve sostenerlo anche per le altre Chiese, perché lo richiede la libertà civile.
Card. Henriquez (Santiago del Cile): esprime parere favorevole a nome di 58 vescovi latinoamericani.
Card. Konig (Vienna): lo schema è buono, ma il Concilio deve tener presente la tragica realtà di tutti quei paesi in cui non esiste libertà religiosa.
Klepacz (Polonia), a nome dei vescovi polacchi: la libertà religiosa si fonda sulla natura razionale dell’uomo, creato libero da Dio; da ciò deriva che: ogni uomo è libero di seguire, in coscienza, la propria religione; ha diritto di diffonderla con mezzi onesti; ogni religione deve essere rispettata, ma ognuno deve studiare quale sia la vera religione (continua).
I numerosi interventi sullo schema della libertà religiosa denotano una netta contrapposizione tra due modi radicalmente diversi di valutare la questione: da un lato la tesi di coloro che si dichiarano contrari perché, convinti che la verità nella sua pienezza si trovi solo nella Chiesa cattolica e che non si debba concedere spazio all’errore e alla diffusione di dottrine false, causa di male per gli uomini, ritengono che solo essa abbia il diritto alla piena libertà e che lo Stato abbia il dovere di sostenere la vera religione, appunto quella cattolica, creando le condizioni che permettano agli uomini l’accesso alla verità divina e ostacolando tutto ciò che la Chiesa consideri contrario al proprio scopo; tutt’al più sarà consentita alle altre religioni una certa tolleranza, per evitare mali peggiori. Tutto ciò inoltre, è conforme al magistero tradizionale della Chiesa e dei papi degli ultimi due secoli.
Dall’altro lato, la tesi sostenuta nello schema del Segretariato: la scomparsa del concetto di tolleranza in favore della libertà di coscienza e di religione per tutti gli uomini, fondata sulla natura e sulla pari dignità di ogni essere umano in quanto creatura di Dio e sulla pari dignità delle diverse religioni; una netta separazione tra i compiti della Chiesa e quelli dello Stato, che non può avere alcuna competenza in questioni di ordine religioso.
Di seguito si riportano i punti essenziali di alcuni interventi particolarmente significativi, in un senso o nell’altro: cominciamo con i contrari.
Card. Ruffini (Palermo): lo schema va cambiato. La libertà religiosa non può essere separata dalla verità che è una e indivisa, di cui la Chiesa è l’unica autentica depositaria; pertanto solo all’unica vera religione, quella professata dalla Chiesa cattolica, spetta il diritto alla piena libertà.
Card. Browne (Irlanda): lo schema è inaccettabile, va rigettato in blocco (continua).
Durante la 83^, 84^, 85^ congregazione (18-22 sett. 1964) si riprende la discussione sul c. 3 dello schema sulla Chiesa dedicato all’Episcopato, di cui si era già discusso nella sessione precedente, finché nell’86^ congregazione (23 sett.) si apre il dibattito sulla libertà religiosa, che continua nell’87^ e 88^. Si tratta di un tema particolarmente sentito e importante, soprattutto per le implicazioni che esso può avere nei rapporti della Chiesa cattolica con le altre confessioni cristiane, con le altre religioni più in generale e con il mondo moderno.
Il testo sulla libertà religiosa, preparato dal Segretariato per l’unità dei cristiani come c. 5 dello schema sull’ecumenismo e presentato durante la 2^ sessione da De Smedt, vescovo di Bruges, su proposta della Commissione di Coordinamento viene ora introdotto, per la discussione, come una Dichiarazione distinta dallo schema sull’ecumenismo e il relatore è di nuovo De Smedt.
Cinque sono i criteri seguiti dal Segretariato nella revisione del testo operata durante la 2^ Intersessione: 1 – Una definizione più chiara del concetto di libertà religiosa, distinguendo tra libertà degli uomini nei rapporti con Dio e degli uomini nei rapporti fra loro; il testo contempla solo la libertà religiosa nei rapporti fra gli uomini, fondata sull’obbligo di rispettare la dignità umana. 2 – L’affermazione del diritto delle comunità religiose a godere di piena libertà in ciò che può aiutare la vita spirituale degli uomini. 3 – L’affermazione che l’esercizio del diritto della libertà religiosa può subire limitazioni se ostacola i diritti degli altri. 4 – La messa in risalto della verità oggettiva della legge divina in modo da escludere i pericoli del soggettivismo e dell’indifferentismo. 5 – La sottolineatura che le attuali condizioni dell’umanità confermano la necessità della libertà religiosa.
La discussione verte in particolare su due titoli dati a Maria: mediatrice e madre della Chiesa.
Su mediatrice emergono tre orientamenti: lasciare il termine nel testo; eliminarlo, come sostengono, per es., Alfrink (Utrecht) e Djajasepoetra (Djakarta); lasciarlo, ma aggiungere altri titoli. Paolo VI è favorevole a questa terza ipotesi, ma deve risultare evidente che c’è una distanza infinita tra la mediazione di Cristo e l’azione di Maria, che ha sì cooperato alla salvezza, ma la mediazione di Cristo rimane l’unica. Questa ipotesi viene approvata dalla commissione dottrinale, che inserisce nel paragrafo specifico i diversi titoli dati a Maria e lo presenterà ai Padri il 27 ottobre, spiegando così la scelta della terza proposta: «Tale titolo viene enunciato con altre invocazioni che non sono affatto controverse. Esso è usato anche dagli orientali, che nelle orazioni liturgiche invocano la beata Maria ausiliatrice, o persino mediatrice, perché ci ha dato Cristo e con Lui tutti i benefici e ci protegge».
Circa la definizione di Maria «madre della Chiesa», essa costituiva il titolo originale dello schema inviato ai Padri dopo la prima sessione, perciò ora alcuni propongono che si ritorni a quel titolo: Castan (Spagna) osserva che lo schema parla sì della maternità di Maria, ma poi omette nel nuovo titolo tale attributo, e ciò è incoerente. Invece Mendez Arceo (Messico), a nome di 40 vescovi latinoamericani, si dice contrario alla definizione di Maria «Madre della Chiesa» perché essa non è presente nella Tradizione orientale, e nella Chiesa latina è piuttosto recente. Nel mese di ottobre la commissione dottrinale decide di conservare allo schema il nuovo titolo, ma di introdurre nel testo la frase «la Chiesa venera Maria come madre amatissima». L’intero capitolo su Maria viene approvato il 18 novembre 1964, mentre tre giorni dopo viene promulgato il testo definitivo sulla Chiesa (Lumen gentium).
Il primo testo ad essere discusso il 15 e il 16 settembre 1964 è il c. 7 dello schema sulla Chiesa, dal titolo La natura escatologica della nostra vocazione e la nostra unione con la Chiesa celeste. Questo capitolo è stato voluto da Giovanni XXIII stesso, convinto che, per parlare di Chiesa, si debba parlare anche di quella parte di essa già incorporata a Cristo e intimamente unita alla Chiesa terrena, con cui forma l’unica Chiesa di Cristo (nella foto: Chiesa terrena e Chiesa celeste in un affresco in S. Maria Novella, Firenze).
Il giudizio espresso dai Padri è per lo più positivo, ma con alcune critiche: Darmajuwana (Indonesia) e Elchinger (Strasburgo) sottolineano che il testo tratta della vocazione personale ed escatologica dei singoli fedeli, ma non di quella collettiva di tutta la Chiesa come popolo di Dio e di tutta la creazione.
Ziadé (Beirut dei Maroniti) critica l’assenza di riferimenti alla funzione escatologica dello Spirito Santo, fondamentale per gli orientali; un gruppo di vescovi evidenzia l’insufficienza degli accenni a purgatorio e inferno, mentre bisognerebbe dare più spazio ai novissimi.
Inserite le modifiche richieste, il capitolo, con il nuovo titolo La natura escatologica della Chiesa pellegrina e la sua unione con la Chiesa celeste, viene approvato dai Padri il 20 ottobre e in via definitiva il 18 novembre 1964.
Inizia il 16 e continua il 17 sett. anche la discussione sul c. 8, il cui titolo precedente La beata Vergine Maria, madre di Dio, è stato modificato in La beata Vergine Maria, madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa, distinto in due parti: il ruolo di Maria nella storia della salvezza; il rapporto di Maria con la Chiesa, della quale Maria è modello. A questo proposito è bene ricordare che durante le discussioni della 2^ sessione l’orientamento prevalente è stato quello di inserire lo schema su Maria in quello sulla Chiesa (cfr. n. 50), collocandolo come ultimo capitolo (continua).
Paolo VI dedica ampio spazio del suo discorso allo schema sulla Chiesa, in parte discusso durante la 2^ sessione: «La Chiesa deve dire di sé ciò che Cristo di lei pensò e volle. La Chiesa deve definire se stessa. Resta da compiere il discorso sulla natura e sulla funzione dei successori degli Apostoli, cioè dell’Episcopato. Il Concilio deve dirimere alcune laboriose discussioni teologiche; deve fissare la figura e la missione dei Pastori nella Chiesa, deve delineare i rapporti tra la Sede Apostolica e l’Episcopato stesso». Così facendo, il Concilio sarebbe stato la continuazione logica del Vaticano I che già aveva definito i poteri conferiti da Cristo a Pietro e ai suoi successori; Paolo VI ricorda poi che la convocazione del Concilio, fatta da Giovanni XXIII, è stata «da Noi subito volentieri confermata, ben sapendo che tema di questa sovrana sacra assemblea sarebbe stato quello relativo all’Episcopato». Il Papa sottolinea inoltre che il suo diritto, come successore di Pietro, di definire e regolare l’esercizio dell’ufficio episcopale «è per il bene e l’unità della Chiesa, tanto più bisognosa di una guida centrale, quanto più vasta diventa la sua estensione cattolica». Infine il Papa rivolge il suo saluto ai sacerdoti di tutto il mondo, ai laici cattolici, ai sofferenti e perseguitati, agli Uditori e alle Uditrici, agli Osservatori delle Chiese non cattoliche che hanno di nuovo accettato di assistere al Concilio.
Una critica di un rappresentante dei protestanti va all’assenza completa di riferimenti agli altri schemi che devono essere ancora discussi e, per quello sulla Chiesa, all’insistenza esclusiva sul tema della gerarchia : «Era come se non ci fosse stato alcun dibattito sul ruolo dell’intero popolo di Dio e questo mi sembra assai inquietante».
Nei mesi che intercorrono tra secondo e terzo periodo le commissioni conciliari continuano a svolgere un intenso lavoro consistente nella revisione degli schemi già parzialmente esaminati, da riprendere e da completare fino alla loro definitiva approvazione: in primo luogo, quelli sulla Chiesa e sull’ecumenismo; inoltre quelli ricordati da Paolo VI nel suo discorso di chiusura: lo schema sulla Rivelazione, quello sull’episcopato e quello sulla Beata Vergine Maria; restano poi gli schemi che trattano altri argomenti di cui, pure, il Concilio dovrebbe occuparsi.
Il lavoro da fare, pertanto, è ancora imponente e molti Padri cominciano a dubitare che basti la prossima sessione per portarlo a termine, secondo il desiderio espresso dal Papa proprio nel discorso del 4 dicembre; lui stesso però, in un discorso del 14 aprile 1964, pur dicendo di aver disposto che i lavori preparatori delle commissioni permettano al Concilio di procedere con più speditezza, precisa che non si intende imporre ad esso limiti e decisioni entro un termine già definito.
A proposito della presenza dei laici al Concilio, nel secondo periodo ne erano stati invitati tredici come uditori, tutti uomini, a cui Paolo VI il 29 novembre 1963 dice che la loro presenza ha evidenziato la stretta collaborazione tra gerarchia e laicato. Ad essi la Chiesa chiede di essere aggiornata sulle attività temporali proprie dei laici; perciò, in merito a queste, le parti si scambiano: i Padri si fanno uditori, i laici locutores. Ma l’8 settembre 1964 il Papa annuncia la sua decisione di invitare alla terza sessione come uditrici anche alcune donne, laiche e religiose (nella foto), «affinché la donna sappia quanto la Chiesa la onori nella dignità del suo essere e della sua missione umana e cristiana».
Un momento di forte tensione si ha l’8 novembre quando il card. di Colonia Frings pronuncia parole molto dure all’indirizzo del Sant’Uffizio presieduto da Ottaviani, il quale si arroga l’autorità di intervenire in questioni approvate dall’assemblea dei vescovi. Le commissioni devono invece attenersi alle regole stabilite dal Concilio, «compresa la suprema Congregazione del Sant’Uffizio, la cui procedura per molti aspetti è inadatta ai tempi in cui viviamo, fa il male della Chiesa ed è per molti uno scandalo». Applauso in aula – dice il verbale ufficiale.
Il teologo domenicano I. Congar (nella foto, con J. Ratzinger), dopo aver ascoltato il 3 dicembre 1963
il discorso del filosofo J. Guitton invitato al Concilio, così scrive nel suo diario: «Ho trovato il suo discorso molto bello, anche se troppo ottimista a proposito dell’ecumenismo. Non è molto realista. Ma sono contento che un laico abbia parlato al Concilio, è la prima volta ed è significativo. Ma sono sempre più colpito nel constatare come tutto questo resti sempre solo fra noi. Significa che c’è poco o nessun contatto col mondo reale. Sono dispute fra chierici; sarebbe necessario avere contatti con uomini e donne reali. Infine è stata data lettura dell’elenco delle facoltà che il Papa concede ai vescovi, mentre in realtà non fa che restituire una parte di quanto è stato loro sottratto nel corso dei secoli!».
Sulla giornata solenne di chiusura del 4 dicembre appare evidente la critica dello stesso Congar: «Stessa processione dell’apertura: tutta la corte pontificia in abiti rinascimentali o con lo sfarzo delle monarchie del tempo del Congresso di Vienna. Dopo la lunga coorte dei cardinali curvi sotto la loro alta mitra, il Papa, in forma di idolo seduto su un trono collocato sulla sedia, è circondato da flabella, come il re Dario. Provo un profondo fastidio. Tutto questo dovrà ben finire un giorno!».
Il 4 dicembre 1963 Paolo VI chiude la 2^ sessione del Concilio con un discorso in cui, dopo aver ringraziato i Padri per il loro impegno, sottolinea che il Concilio ha in parte già raggiunto uno scopo importante: accrescere la coscienza e la conoscenza che la Chiesa ha di sé. «Quando mai essa fu così consapevole di se stessa, così innamorata di Cristo? Abbiamo imparato a conoscerci e a conversare tra noi, siamo diventati amici». Grande è stata la gioia del Papa nel vedere tanta partecipazione e la presenza degli Osservatori delle altre Chiese cristiane e dei tredici Auditores laici «rappresentanti delle immense schiere del laicato cattolico».
Due sono gli aspetti notevoli dell’attività svolta dal Concilio: la grande laboriosità; la libertà, la varietà, la molteplicità delle voci che in esso si sono espresse.
Due, fra i temi discussi, sono stati conclusi e verranno tra poco promulgati: quello sulla sacra Liturgia e quello sui mezzi di comunicazione sociale.
«Altre questioni rimangono aperte a nuovo studio e a nuove discussioni, che Noi speriamo la prossima terza sessione vorrà condurre a buon termine»: la questione sulla divina rivelazione; quella sull’Episcopato, che va visto «non come antagonista rispetto al Papa, ma con lui e sotto di lui cospirante al bene comune e al fine supremo della Chiesa»; quella sullo schema De beata Maria Virgine.
In conclusione, il Papa rileva che la 2^ sessione ha terminato alcuni argomenti e ne ha ben avviati altri; ha dimostrato grande libertà di opinioni; ha stimolato in tutti la carità che non va mai disgiunta dalla verità; ha sempre tenuto presenti le finalità pastorali del Concilio; ha cercato vie che possano avvicinare i fratelli separati.
Infine Paolo VI annuncia il suo pellegrinaggio in Terra Santa (cfr. n. 41) e rivolge un pensiero a quei Padri impediti di partecipare al Concilio per ragioni politiche (nella foto: Paolo VI alla chiusura della 2^ sessione).
Nelle ultime congregazioni del secondo periodo altri Padri, soprattutto dell’America Latina, insistono sulla necessità che il Concilio parli anche dei poveri: l’ecumenismo non è possibile senza un rinnovamento interiore dei fedeli, che devono vivere in uno spirito di povertà, di umiltà e di giustizia sociale verso le classi meno abbienti; anche la vita esteriore della Chiesa deve eliminare i segni di ricchezza che ne offuscano l’annuncio del Vangelo di Cristo.
Durante la discussione sul c. 3 dello schema vengono evidenziate alcune differenze tra ortodossi e protestanti: i primi sono più vicini alla Chiesa cattolica perché, come questa, hanno conservato, mediante la gerarchia, la successione apostolica e gli stessi sacramenti; il principale ostacolo all’unità non è il primato del Papa, ma la forma con cui esso viene esercitato, che sa di centralismo, a scapito di un governo della Chiesa più sinodale.
Dwyer, vescovo di Leeds, sottolinea che già da tempo i rapporti tra cattolici e protestanti sono di amicizia e, anche se su molti punti di fede e morale è ancora grande la distanza tra loro, tuttavia molti non cattolici sono uomini di preghiera e amano Cristo. Inoltre sarebbe necessario chiamare le diverse Chiese separate non solo «comunità», ma «comunità ecclesiali»: rifiutarsi di chiamarle Chiese è un ostacolo all’ecumenismo.
Con la 79^ congr. del 2 dic. 1963 si conclude momentaneamente la discussione sullo schema De unitate Ecclesiae, di cui non vengono esaminati i cc. 4 e 5 che, di fatto, saranno poi scorporati da questo schema per confluire in altri due testi distinti. Nel frattempo, si è proceduto anche con le ultime votazioni sugli schemi della riforma liturgica e dei mezzi di comunicazione sociale, che risultano così i primi due testi conciliari ad essere definitivamente approvati e promulgati il 4 dicembre 1963.
Card. Gracias (India): il c. 2 mostra l’importanza della collaborazione tra i cristiani (unità nella carità), ma non insiste abbastanza sulla comune attività a servizio dei poveri; il Concilio non ha ancora parlato di essi e di come liberarli dalla miseria e il mondo attende che esso affronti questo tema.
Card. Henriquez (Cile): la regola fondamentale dell’ecumenismo è la caritas (amore), perché è l’amore che crea l’unione e che può essere sperimentato; perciò cercare sì la verità, ma nella carità, come dice S. Paolo, da essa occorre partire per un vero ecumenismo.
Hengsbach (Germania): fra cattolici e protestanti occorre una collaborazione, oltre che in campo dottrinale, anche in campo sociale contro fame e analfabetismo.
Farah (Melchiti del Libano): l’esercizio dell’ecumenismo riguarda non solo il modo di esprimere alcune verità non accettate da tutti, ma anche il modo con cui esse vengono messe in pratica, come, per es., l’esercizio del primato del Papa, che non deve risultare inconciliabile con le tradizioni delle Chiese orientali e con l’esercizio effettivo della collegialità episcopale.
Capucci (Aleppo, Siria): non si può raccomandare la collaborazione nei problemi sociali e sindacali, se poi si proibisce la partecipazione agli stessi riti religiosi: non vi è nulla di meglio della preghiera in comune per favorire l’unione tra cattolici e ortodossi che hanno fede nello stesso Cristo.
Reetz (Germania): occorre che cattolici e protestanti collaborino di più nello studio della Scrittura, come accade in Germania. Alcuni aspetti del cattolicesimo non graditi ai protestanti: una teologia spesso poco biblica, scolastica, eccessivo senso giuridico, certe formule di devozione mariana. Motivi di attrazione: liturgia solenne, vita monastica, celibato ecclesiastico, unità della Chiesa nella lingua, nei riti, nel sacrificio eucaristico, dei vescovi attorno al Papa, segno visibile di questa unità (continua).
(Un simbolo dell’ecumenismo con le diverse chiese cristiane)
Nella 72^ Congr. del 21 nov. i cc. 1,2,3 dello schema De Ecclesiae unitate vengono approvati come base per proseguire il dibattito su ogni singolo capitolo; molte sono invece le obiezioni a mantenere nello schema i cc. 4 e 5.
Ecco alcune osservazioni espresse nei giorni successivi sul c. 1: Huyghe (Arras, Francia): positivo il fatto che si dica che la buona vita dei cattolici è il miglior contributo all’ecumenismo e che si parli di «avvicinamento e accesso» dei fratelli separati, piuttosto che di «ritorno»: ciò denota un cambiamento di mentalità e una conversione del cuore di tutti i cristiani. Jaeger (Paderborn, Germania): occorre dire più chiaramente che per i cattolici l’eucarestia è il sacramento dell’unità; per la cattolicità della Chiesa occorre rifarsi al pensiero di Paolo nella lettera agli Efesini. Guano (Livorno): il problema dell’ecumenismo deve essere sentito da tutti con urgenza, poiché immensi sono i danni derivanti dalla divisione dei cristiani. Tre sono i momenti per promuovere l’unità: 1- collaborazione tra cattolici e protestanti per la soluzione dei problemi attuali; 2-dialogo tra cattolici e non cattolici per la reciproca conoscenza; 3-la comune preghiera perché tutti gli uomini accolgano la Parola di Dio, perché cattolici e fratelli separati partecipino all’eucarestia, perché i fratelli separati riconoscano l’ufficio dell’episcopato e del Papa. Pangrazio (Gorizia): delle comunità separate si indicano bene gli elementi ecclesiali in esse presenti, ma va precisato meglio il centro a cui essi si riferiscono, cioè Cristo, che opera cose meravigliose anche nei fratelli separati. Occorre inoltre tener presente l’ordine gerarchico delle verità rivelate (Trinità, Incarnazione, Redenzione ecc.), perché ciò farebbe apparire più chiara l’unità, già esistente tra i cristiani, intorno alle verità fondamentali della Fede (continua).
C. Morcillo (Saragozza): lo schema mostra uno spirito positivo poiché sono scomparse le condanne verso i fratelli separati, presenti nei testi del passato sull’ecumenismo. La Chiesa non può ignorare i valori cristiani presenti nelle confessioni separate, che conservano le impronte della Chiesa stessa, come frammenti di un metallo aureo che indicano la miniera da cui scaturiscono. Perciò per i cristiani separati la parola «ritorno» è inaccettabile: essi non si considerano responsabili di alcuna colpa, credono di aderire alla Chiesa di Cristo e di custodire perfettamente il nucleo cristiano. Un vero dialogo è possibile se fondato su rispetto, stima e reciproca collaborazione; il titolo del c.1, da «principi dell’ecumenismo cattolico», dovrebbe diventare «principi cattolici dell’ecumenismo», poiché non si tratta di impostare una nuova specie di ecumenismo, ma di collaborare col Movimento ecumenico già esistente. Infine è inopportuno trattare qui dei Giudei, cosa che risulterebbe inoltre sgradita ai musulmani.
A. Abed (Tripoli dei Maroniti del Libano): occorre dare più rilievo a tutti i valori cristiani presenti presso i fratelli separati, che non sono pagani da convertire, ma cristiani da abbracciare di nuovo. Qui sta tutta l’essenza teologica di un ecumenismo realistico, senza il quale si ha solo proselitismo.
F. Da Veiga Couthinho (India): per l’ecumenismo in paesi di missione come l’India è importante occuparsi anche delle religioni non cristiane, perciò è inopportuno che lo schema tratti dei Giudei e non delle altre religioni. Quindi è bene togliere il c. 4 sui Giudei o aggiungervi anche una parte dedicata a Islam, Induismo, ecc. Tutte le religioni vanno trattate con rispetto e vanno eliminate espressioni offensive ad esse riferite, come «tenebre dell’ignoranza, paganesimo, idolatria».
(Nella foto: preghiera comune tra cattolici, protestanti, ortodossi) (continua).
Nel seguito del dibattito alcuni Padri ritengono più opportuno collocare il c. 4 sugli Ebrei e il c. 5 sulla libertà religiosa in schemi diversi da quello sull’unità dei cristiani; qualcuno giudica il titolo dato al testo, De Oecumenismo, non appropriato, perché esso può far pensare a una forma di interconfessionalismo.
Alcuni interventi significativi:
A. Elchinger (coadiutore di Strasburgo) loda lo schema e sottolinea le condizioni che rendono possibile l’ecumenismo: riconoscere che le divisioni sono nate dalla volontà di affermare verità che la Chiesa aveva trascurato; riconoscere la verità, anche parziale, della dottrina degli «altri»; approfondire la ricerca della verità da entrambe le parti; non confondere l’unità della fede con l’uniformità delle dottrine teologiche e dei riti: occorre apprezzare le legittime differenze.
M. Baudoux (Canada): il dialogo con i fratelli separati non è relativismo dottrinale, richiede il reciproco perdono delle offese, il riconoscimento della vera, benché imperfetta, comunione con essi, grazie alla loro incorporazione in Cristo per mezzo del battesimo e della professione del nome di Cristo.
J. Weber (Strasburgo): lo schema non prevede la possibilità, come era previsto in uno dei tre documenti poi fusi insieme nello schema in discussione, di ricevere i sacramenti in una delle Chiese separate che hanno conservato la successione apostolica, il sacerdozio valido e l’eucarestia. Sarebbe perciò bene mantenere tale possibilità tra cattolici e ortodossi, come talvolta avveniva in passato in Oriente.
I. Ziadé (Beirut dei Maroniti del Libano): lo schema risponde a tre principi fondamentali dell’ecumenismo: sottolinea gli elementi di unità già esistenti; afferma che i cristiani possono arricchirsi a vicenda; dichiara che l’unità va raggiunta senza sopprimere le legittime diversità
(nella foto: Un momento liturgico comune, in anni recenti, tra cattolici, ortodossi, protestanti).
Nei giorni 18-21 nov. il dibattito riguarda lo schema nel suo insieme: i capitoli 1-2-3 vengono presentati da mons. Martin, che ne sottolinea il carattere pastorale e la loro novità per un Concilio in cui mai era stato affrontato questo tema dopo le secolari divisioni della Chiesa; proprio lo scandalo di queste divisioni richiede che il Concilio ora tratti questo problema. Il c. 4 è presentato dal card. Bea, il 5 da De Smedt.
Numerosi gli interventi dei vescovi: fin dal primo giorno di dibattito i Padri mediorientali Tappouni e Maximos IV (Siria), Stefano I (Egitto) disapprovano la presenza, nello schema, del c. 4 dedicato agli ebrei, che non sono cristiani e dei quali, perciò, bisognerebbe trattare in uno schema diverso, con le altre religioni non cristiane. E’ forte in loro la preoccupazione di eventuali conseguenze per i cattolici dei loro stessi paesi che, in quanto Stati arabi, sono profondamente ostili a Israele.
P. Doi (Tokyo): le divisioni dei cristiani sono un grave impedimento per la conversione dei non cristiani. Oltre che sui Giudei, bisognerebbe dire qualcosa anche su buddismo e confucianesimo, che pure contengono germi di verità che possono preparare la via al Vangelo.
Alcuni Padri spagnoli sottolineano i gravi rischi che l’ecumenismo comporta, tra cui quello di esporre i fedeli all’indifferentismo religioso.
Il card. Ritter (USA) (nella foto) valuta positivamente lo schema in generale e il cap. sulla libertà religiosa, che segna la conclusione dello spirito della Controriforma. L’eucarestia deve risultare in modo più chiaro segno e causa dell’unità della Chiesa. Non si esiti a chiamare chiese le comunità dei cristiani separati.
Il teologo Congar così esprime le sue impressioni dopo la prima seduta : «Due mentalità si sono manifestate: quale abisso tra l’evangelismo della relazione di Martin e quelli che sono puramente attaccati a un passato sorpassato!».
Interrotta la discussione sul De Ecclesia, che verrà ripresa nella prossima sessione (1964), e dopo l’esame dello schema sui vescovi e le diocesi, nella fase finale della 2^ sessione (18 nov.-2 dic. 1963), dalla 69^ alla 79^ congregazione, si riprende l’esame, iniziato nella prima sessione, dello schema sull’unità della Chiesa (De Ecclesiae unitate) (cfr. n. 30), suddiviso in cinque capitoli e presentato di nuovo dal card. Cicognani. Esso, come richiesto l’anno prima dai Padri, è il risultato della fusione di tre schemi precedenti: quello elaborato dalla Commissione per le Chiese orientali; quello steso dalla Commissione teologica, che era un capitolo inserito nel De Ecclesia; quello preparato dal Segretariato per l’unità dei cristiani.
Questi sono i 5 capitoli dello schema: 1-Principi dell’ecumenismo cattolico; 2-Pratica dell’ecumenismo; 3-I cristiani separati dalla Chiesa Cattolica; 4-Attegiamento dei cattolici verso i non cristiani e specialmente verso i Giudei; 5-La libertà religiosa.
Da questi temi nasceranno domande quali: si deve parlare dell’ecumenismo cattolico o dei principi cattolici dell’ecumenismo? L’ecumenismo può aprire la strada all’indifferentismo? Si devono chiamare «chiese» le comunità nate dalla Riforma protestante? Gli elementi positivi del protestantesimo non vanno meglio sottolineati? Non è bene affermare la necessità del rispetto della gerarchia delle verità di fede?
Tutto ciò lascia prevedere che nel dibattito si manifesteranno due mentalità: quella di coloro che concepiscono l’unità dei cristiani come un ritorno puro e semplice degli «altri» alla Chiesa cattolica; quella di coloro che non considerano tutte le verità sullo stesso piano e che avvertono l’esigenza che tutte le Chiese cristiane testimonino la loro fede comune in Cristo Gesù.
(nella foto: Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli Athenagoras nel loro incontro a Gerusalemme)
Altro argomento di discussione riguarda la collocazione dello schema su Maria Vergine: c’è chi ritiene più opportuno tenerlo distinto da quello sulla Chiesa, chi invece pensa sia meglio incorporarlo nel De Ecclesia. Vediamone le ragioni in un senso e nell’altro.
Card. Santos (Manila): è meglio parlare di Maria in uno schema specifico, anche se strettamente connesso con quello sulla Chiesa, affinché risulti più chiara la sua eccellenza e dignità, cosa che non sarebbe possibile se fosse inserito nello schema sulla Chiesa.
Card. Konig (Vienna): è bene incorporare il discorso su Maria nel De Ecclesia per ragioni teologiche: c’è un nesso intimo tra la dottrina sulla Chiesa e Maria; uno schema separato verrebbe interpretato come se dal Concilio venissero proclamati nuovi dogmi mariani; poiché la Chiesa è anche il popolo di Dio e la comunità dei Santi, Maria, come membro eminente di questo popolo, va posta dentro lo schema, affinché si colga meglio il valore del ruolo di Maria in relazione a Cristo e alla Chiesa; la Chiesa, frutto della redenzione di Cristo, è anche mezzo di salvezza, perciò Maria, membro della Chiesa, è anch’essa frutto della redenzione e mezzo di salvezza che dà agli altri ciò che lei stessa ha ricevuto da Cristo, con cui coopera alla salvezza degli uomini; Maria è figura della Chiesa e quindi il nesso tra lei e la Chiesa si esprime meglio nel medesimo schema (nella foto: Maria con gli apostoli a Pentecoste).
Per ragioni pastorali: se si vuole presentare ai fedeli la dottrina mariologica non come un corpo separato, ma unito al mistero di Cristo e della sua Chiesa, è necessario incorporarla nello schema sulla Chiesa.
Per ragioni ecumeniche: gli Ortodossi possono riconoscere la Venerabile Madre di Dio più facilmente in un testo inserito nel De Ecclesia che in uno a parte e i Protestanti avrebbero meno difficoltà a riconoscere che il culto di Maria ha un fondamento nella Scrittura e nella Tradizione.
Su questo tema così dice il par. 9 dello Schema Philips in discussione: «La Chiesa sa che essa è unita per più motivi con tutti coloro che, battezzati, sono cristiani, ma non professano integra la fede o l’unità della comunione sotto il Romano Pontefice (nella foto Giovanni XXIII con osservatori ortodossi). Infatti essi credono con amore in Cristo, Figlio di Dio Salvatore, riconoscono e ricevono tutti o almeno certi sacramenti. Lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo il desiderio che tutti si uniscano pacificamente in un solo gregge sotto un solo Pastore e, per ottenere ciò, la Chiesa non cessa di pregare, sperare, agire».
Anche su tale argomento le posizioni sono differenziate, come dimostrano i due interventi di seguito:
B. De Mello (Palmas, Brasile): nel par. 9 dello schema vi è una contraddizione tra il Concilio in atto e quelli precedenti, poiché in essi coloro che non accoglievano la dottrina cattolica venivano sempre colpiti da anatema, in questo invece no. Poiché non può esservi contraddizione rispetto al passato, occorre dare qualche spiegazione sul perché in questo Concilio si agisce diversamente. Sembra che ci sia il timore di confessare apertamente tutta la fede della Chiesa Cattolica nel Romano Pontefice: è noto infatti il grandissimo scandalo che dal Vaticano I in poi il primato e l’infallibilità del Papa suscitano negli avversari della fede cattolica.
M. Baudoux (Canada): ciò che nel par. 9 si dice dei legami della Chiesa con i fratelli separati non è adeguato per un dialogo fraterno con essi, poiché sono considerati battezzati e credenti individualmente, ma nulla si dice delle loro comunità cristiane separate dalla Chiesa, che pure proclamano il Vangelo di Cristo e celebrano il battesimo e gli altri sacramenti. Anche attraverso queste comunità Dio salva e santifica gli uomini, ad esse concede grazie e da esse riceve il culto divino, e la Chiesa Cattolica dovrebbe riconoscere ciò apertamente e con gioia.
L. Helchinger (Strasburgo): lo schema De Ecclesia mostra bene la dimensione universale o cattolica del Popolo di Dio, a cui tutti i cristiani appartengono per il loro battesimo. Bisogna però fare in modo che questa idea di universalità e comunione non resti astratta e impersonale, ma che incida nella vita dei fedeli e ne contrasti il radicato individualismo, dovuto spesso a un senso di anonimato, agli spostamenti continui per motivi diversi, a diocesi e parrocchie troppo grandi. E’ quindi necessario favorire un’esperienza personale di comunione cristiana in piccole comunità, sull’esempio della comunità di Gerusalemme descritta in At 2, perché solo in tale esperienza la vita apostolica dei cristiani può trovare il suo fondamento: oggi realmente l’individualismo è un’eresia grave e minacciosa sia per i laici che per i loro Pastori.
M. Mc Grath (Panama, parla a nome di oltre 40 vescovi dell’America Latina): la vita dei laici sembra consistere nella sottomissione alla gerarchia, dalla quale essi ricevono semplicemente il mandato dell’apostolato, secondo una concezione piramidale e clericale. Poiché le realtà mondane sono di competenza dei laici, è necessario che anche i cattolici collaborino e si impegnino con tutti gli uomini di buona volontà per la realizzazione di tutti quei valori secolari che promuovono il bene e il progresso dell’uomo e che possono debellare lo stato di miseria in cui ancora tante moltitudini vivono. La Chiesa però appare spesso troppo preoccupata delle cose soprannaturali, dando l’impressione di evadere dai problemi del mondo: ma se essa non riesce a mostrare che gli sforzi in atto per realizzare il progresso, la giustizia e un uso dei beni terreni in uno spirito di servizio reciproco, sono già un adombramento del Regno di Dio, i cristiani non potranno costruire col mondo il ponte che Paolo VI indica come il fine del Concilio.
Un tema più volte emerso, parlando dei laici che col clero costituiscono il Popolo di Dio, è quello della loro responsabilità, che nella Chiesa finora è risultata troppo scarsa, se non assente. Così si esprimono alcuni Padri:
F. Hengsbach (Essen, Germania): lo Spirito è presente non solo nella gerarchia, ma anche nei fedeli, nei quali, pure, esso agisce per l’edificazione della Chiesa. Perciò occorre dare ad essi più responsabilità nell’apostolato; inoltre i laici, uomini e donne, hanno dato preziosi suggerimenti ai vescovi nel preparare alcuni schemi del Concilio.
Card. L. Suenens (Malines, Belgio) : nel De Ecclesia si parla poco dei carismi dei fedeli laici, ricchi di doni dello Spirito Santo e impegnati in opere sociali, caritative, apostoliche. I Pastori devono promuovere questi doni dello Spirito e coinvolgere di più i laici che, in molti ambiti del mondo odierno, hanno maggiore esperienza della vita rispetto al clero stesso.
E. Primeau (Manchester, USA): lo schema insiste troppo sull’obbedienza e la sottomissione dei laici alla gerarchia, come se gli unici loro doveri fossero credere, pregare, obbedire, pagare. Non si sottolinea a sufficienza la responsabilità e la libertà di iniziativa dei laici, che sono membra vere del Corpo Mistico di Cristo e desiderano un’attiva partecipazione alla missione della Chiesa e una definizione del loro ruolo nell’apostolato.
J. Ménager (Meaux, Francia): gli uditori laici giudicano il testo inadeguato poiché presenta una descrizione troppo negativa e insufficiente della loro missione; è necessario mettere più in luce l’aspetto positivo della vocazione propria dei laici nella Chiesa e la loro missione. Essi, membra del Corpo Mistico di Cristo, sono chiamati a conseguire la pienezza della carità, a adempiere la missione di tutto il popolo di Dio e a promuovere nel mondo il regno di Dio. (continua)
Un altro argomento dibattuto riguarda la collocazione, nel De Ecclesia, del capitolo sul Popolo di Dio, una delle immagini, che include tutti i credenti, con cui viene rappresentata la Chiesa, ma che lo schema Philips poneva come terzo, dopo quello sulla costituzione gerarchica. Molti Padri si esprimono perché esso venga invece anteposto a quello sulla gerarchia: vediamone alcuni.
G. Gargitter (Bressanone): è necessario parlare del Popolo di Dio in modo più diffuso e positivo e solo successivamente di coloro che, tra questo Popolo, sono scelti e costituiti come pastori perché di esso si prendano cura e lo servano.
Card. Silva Enriquez (Santiago del Cile): ottima la divisione del cap. 3 in due parti dedicate, rispettivamente, al Popolo di Dio e, in esso, ai laici, ma questo capitolo deve diventare il 2°, prima di quello sulla gerarchia.
C. Padin (Brasile): poiché la gerarchia fa parte del Popolo di Dio, si deve parlare prima della Chiesa come Popolo di Dio, poi della gerarchia e della sua funzione dentro di esso.
K. Wojtyla: è interessante vedere come si esprime, in un intervento del 21 ottobre 1963, l’allora giovane vescovo di Cracovia: la costituzione gerarchica della Chiesa suppone la costituzione del Popolo di Dio, perciò la si comprende molto meglio se nello schema si antepone ad essa la dottrina sul Popolo di Dio. In tal modo sarà più evidente che la gerarchia è mezzo per conseguire il bene comune di tutto il Popolo di Dio, cioè della Chiesa. Se si antepone il discorso sul Popolo di Dio, si comprenderà meglio anche la distinzione, in esso, tra laici, chierici, religiosi, cioè tra le diverse vocazioni a cui ogni credente è chiamato. Perciò, invertendo l’ordine tra i capitoli 2 e 3, la struttura stessa dello schema sulla Chiesa apparirà più logica e comprensibile.
Possiamo notare, in merito, posizioni differenziate:
Card. A. Bacci: è contrario all’istituzione del diaconato come grado permanente e con possibilità di dispensa dal celibato: così facendo, si avrebbe un corpo di diaconi celibi e uno di sposati e sarebbe necessario istituire nuovi seminari per quegli alunni che si preparano al diaconato senza obbligo di celibato. Infatti sarebbe sconveniente che questi ultimi venissero educati e formati con quelli che invece si preparano al diaconato celibatario.
G. Carraro (Verona): è favorevole al diaconato come grado a se stante, purché celibatario, sia per non infrangere una tradizione antica nella Chiesa latina, sia perché il celibato favorisce la libertà individuale e lo spirito di povertà; inoltre, concedendo la possibilità del matrimonio, non vi sarebbe neppure un maggior numero di vocazioni.
Card. L. Suenens (Malines, Belgio): dal N. T. e dalla Tradizione risulta che i diaconi svolgevano importanti mansioni per la comunità. Si tratta di restaurare il diaconato come ordine stabile e autonomo della Gerarchia, e senza obbligo di celibato, là dove i vescovi lo riterranno opportuno, come nei paesi in cui i cristiani vivono in grandi spazi geografici o nelle periferie delle grandi città.
F. Seper (Zagabria): negli Atti degli apostoli il diaconato era stabile; dal punto di vista ecumenico esso esiste nelle Chiese orientali; dal punto di vista pastorale, può aiutare a superare difficoltà attuali, come accadde nella Chiesa primitiva.
Card. P. Richaud (Bordeaux): la restaurazione del diaconato permanente non ostacola le vocazioni, ma le favorisce: molti giovani, che non osano affrontare responsabilità sacerdotali, svolgerebbero volentieri, accanto ai vescovi, un fecondo lavoro apostolico.
Più incline a riaffermare con maggior vigore il primato di Pietro rispetto agli altri apostoli, e quindi del Papa rispetto al collegio dei vescovi, è P. Parente: Gesù ha costituito la sua Chiesa soltanto sulla roccia che è Pietro. E’ esatto dire che tutti gli apostoli sono, con Pietro, il fondamento della Chiesa, purché ciò non significhi che gli altri apostoli sono uguali a Pietro. Il vero fondamento è costituito dalla roccia su cui poggia l’edificio, le altre parti possono essere dette fondamenta, ma non allo stesso modo: gli altri apostoli non sono da considerarsi uguali a Pietro. Circa la collegialità episcopale, i suoi membri né superano il Papa né possono essere equiparati a lui. I vescovi formano un collegio, ma solo con uno stretto legame con il Papa.
De Ecclesia: il diaconato permanente
Altro argomento oggetto di discussione è costituito dal diaconato, che rappresenta la penultima tappa nel percorso che conduce all’ordinazione presbiterale. In particolare, due sono gli aspetti su cui si dibatte: la possibilità di conferirlo come grado permanente, cioè a uomini non destinati a diventare presbiteri; la possibilità che esso venga conferito anche senza obbligo di celibato.
Vediamo ciò che dice in proposito il par. 15 dello schema in discussione: «Il diaconato, in futuro, potrà essere esercitato come un grado proprio e permanente della gerarchia, quando la Chiesa abbia ritenuto che ciò giovi alle necessità della cura d’anime, o in certe regioni o in tutte. In tal caso spetta ai preposti decidere se tali diaconi siano tenuti o no alla sacra legge del celibato» (continua).
Un chiarimento circa le immagini dei nn. 44 e 45: in At 6,1 si usa il termine diakonia per indicare il servizio quotidiano consistente nel distribuire viveri alle vedove della comunità cristiana; da qui l’istituzione della figura del diacono, di cui in LG 29 si dice: «I diaconi, dedicati agli uffici di carità e di assistenza…». Gesù che lava i piedi ai discepoli (nella foto) è simbolo dello spirito di servizio che deve caratterizzare tanto i diaconi quanto ogni cristiano.
Vediamo ciò che dicono su questo tema alcuni Padri, concordi nel sostenere, come la maggioranza dei vescovi, la necessità di un maggior coinvolgimento dei vescovi stessi nel governo collegiale della Chiesa, pur riconoscendo il ruolo di guida e il primato del Papa.
J. Lefebvre (da non confondere con Marcel Lefebvre!): tutti i Padri aderiscono alla dottrina sul primato e l’infallibilità del Papa sancita dal Vaticano I; perciò la preoccupazione di alcuni che la discussione sulla collegialità dell’episcopato possa indebolire tale dottrina è lodevole, ma ostacola la ricerca della verità.
Maximos IV di Siria: il Papa è membro del Collegio apostolico proprio in quanto ne è il Capo, ma il suo potere non elimina né il potere del Collegio apostolico né quello di ogni vescovo nella propria diocesi. Inoltre non bisogna creare ulteriori ostacoli all’unione con i cristiani orientali per i quali la designazione dei vescovi non è riservata al Papa per diritto divino.
J. Heuschen di Liegi: secondo la Tradizione, la Chiesa si basa sul fondamento degli apostoli, di cui i vescovi sono i successori, considerati collegialmente.
A. Charue di Namur (Belgio): anche il N. T., come Ef 2,20, conferma che la Chiesa è fondata sugli apostoli e non solo su Pietro.
L. Bettazzi (nella foto), vescovo ausiliare di Bologna (cfr. n. 29): con la consacrazione episcopale i vescovi divengono, per diritto divino, membri del corpo episcopale, partecipano alla universale giurisdizione della Chiesa e costituiscono il collegio dei successori degli apostoli in comunione con il Papa che, successore di Pietro, ne è il capo. Questa tesi, lungi dal minacciare il primato del romano Pontefice, è quella accettata anche nei secoli scorsi dai più importanti fautori di tale primato. Perciò innovatori non sono i sostenitori della collegialità, ma chi sostenesse il contrario (continua).
42 – Il pellegrinaggio in Terra Santa (segue)
Così continua l’annuncio del pellegrinaggio in Terra Santa dato da Paolo VI: «…per richiamare ad essa [la Chiesa] unica e santa i fratelli separati, per implorare la divina misericordia in favore della pace fra gli uomini, la quale in questi giorni mostra ancora quanto sia debole e tremante, per supplicare Cristo Signore per la salvezza di tutta l’umanità».
Si nota la ripresa di due motivi fondamentali su cui aveva già insistito Giovanni XXIII: il desiderio del ritorno della Chiesa all’unità e il tema della pace, oggi così di attualità, di cui il Papa sottolinea «quanto essa sia debole e tremante» e, pertanto, la necessità di implorarla da Cristo, Principe della pace. Fu proprio Paolo VI a istituire, il 1° gennaio 1968, la Giornata Mondiale della Pace, che saremo invitati a celebrare di nuovo con particolare intensità tra pochi giorni: il Natale di Cristo e la pace, suo dono, ma anche faticosa costruzione degli uomini, appaiono sempre strettamente congiunti nelle parole dei Papi del Concilio.
A proposito dell’unità dei cristiani, Paolo VI incontra due volte, il 5 e il 6 gennaio, a Gerusalemme il Patriarca ortodosso di Costantinopoli Athenagoras (nella foto), novecento anni dopo lo scisma della Chiesa d’Oriente da Roma; in tal modo questo pellegrinaggio, che doveva avere un significato strettamente spirituale, assume una dimensione ecumenica decisiva anche per il futuro del Concilio. Interessante il commento del giornalista del quotidiano francese Le Monde, Henri Fresquet, autore di un Diario del Concilio. Tutto il Concilio giorno per giorno: «Questo viaggio è un “ritorno alle fonti” che non può essere interpretato altrimenti che come la volontà del Papa di rivelare alla Chiesa lo stile evangelico che a poco a poco dall’epoca costantiniana è andato sempre più scomparendo. E’ inoltre un atto ecumenico di grandissima importanza al quale gli orientali saranno estremamente sensibili».
[Cogliamo l’occasione per informare che la rubrica riprenderà dopo le feste e per augurare a tutti un Natale sereno e un felice Anno Nuovo, illuminato dalla luce di Gesù, il Verbo che si è fatto Carne e ha abitato tra noi]
41 – L’annuncio del pellegrinaggio in Terra Santa
Prendiamo l’occasione del Natale imminente per rinviare un po’ più in là il discorso sui temi del De Ecclesia e soffermarci su un evento significativo, pur sempre inserito nel clima conciliare ma, nello stesso tempo, utile per una riflessione sul Natale: l’annuncio dato da Paolo VI, il 4 dicembre 1963, alla chiusura della seconda sessione del Concilio, del pellegrinaggio in Terra Santa che si sarebbe svolto dal 4 al 6 gennaio 1964. Dalla prigionia di Pio VII in Francia, al tempo di Napoleone, un Papa non era più uscito dal territorio italiano e dal 1870 neppure dalla Città del Vaticano (a parte il pellegrinaggio di Giovanni XXIII a Loreto e Assisi); anche per questo motivo l’annuncio di tale iniziativa, accolto dall’assemblea dei vescovi con un grande applauso, apparve ancor più straordinario e unico. Ecco le parole con cui esso fu dato:
«…Vogliamo recarci, se Dio ci assiste, nel prossimo mese di gennaio, in Palestina, per onorare personalmente, nei Luoghi santi ove Cristo nacque, visse, morì e risorto salì al Cielo, i misteri primi della nostra salvezza: l’Incarnazione e la Redenzione. Vedremo quel suolo benedetto, donde Pietro partì e dove non ritornò più un suo successore; noi umilissimamente e brevissimamente vi ritorneremo in segno di preghiera, di penitenza e di rinnovazione per offrire a Cristo la sua Chiesa…».
Così le Poste Vaticane hanno voluto commemorare questo pellegrinaggio di Paolo VI, riproducendo (cfr. foto) il Papa in preghiera, la basilica della Natività a Betlemme, la basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, un particolare di Nazareth, luogo dell’Annunciazione a Maria e dell’Incarnazione di Cristo.
La prossima volta vedremo alcuni altri motivi importanti a cui Paolo VI accenna nel discorso in cui annuncia il suo pellegrinaggio in Terra Santa.
40 – Due immagini
Oggi, prima di proseguire con i temi del De Ecclesia, ci soffermiamo su due belle immagini (nelle foto) riprodotte in uno dei volumi degli Atti del Concilio:
L’immagine di sinistra, da una miniatura del sec. XV, rappresenta Maria e gli apostoli nel giorno di Pentecoste e venne distribuita ai Padri conciliari nella 37^ congregazione del 30 settembre 1963, all’inizio della seconda sessione, accompagnata dalla preghiera in latino allo Spirito Santo, con cui si apriva ogni congregazione (cfr. testo riportato parzialmente, in traduzione, al n. 17).
L’immagine di destra, di cui non è indicata la provenienza, rappresenta Cristo Re e venne distribuita ai Padri conciliari nella 45^ congregazione del 10 ottobre 1963, accompagnata dalla seguente preghiera (originale in latino) scritta da Paolo VI:
«Alla tua Maestà, Signore Dio, offriamo questo sacrificio di lode e, uniti col tuo servo il Nostro Pontefice Paolo in devoto ossequio d’animo, preghiamo l’immensa tua bontà affinché tu guardi con volto benevolo il Concilio Ecumenico Vaticano II e renda fecondo il suo esito con l’abbondanza della tua grazia. Per Cristo nostro Signore. Amen».
[N.B.: La seconda immagine citata nel testo è visibile sul nostri canali social Instagram e Facebook]
39 – Perché il De Ecclesia è considerato così importante?
In una conferenza stampa del 5 ottobre 1963, R. Stourm, vescovo francese di Sens, ne spiega bene i motivi:
1 – la Chiesa è stata affidata a uomini e perciò ha sempre bisogno di essere riformata per recuperare l’originario spirito evangelico; ciò è necessario per fedeltà a Cristo, suo fondatore, ma anche per preparare un terreno favorevole all’incontro con i fratelli separati.
2 – La Chiesa è troppo centralizzata, perciò è necessario un recupero della collegialità episcopale, affinché i vescovi si sentano corresponsabili col Papa dell’evangelizzazione del mondo intero.
3 – È necessario che i vescovi di ogni nazione collaborino tra loro, perché ormai molte questioni non possono più essere risolte dalle singole diocesi, ma richiedono un lavoro condiviso.
4 – Bisogna definire il posto dei laici nella Chiesa (e questo è lo scopo del capitolo sul Popolo di Dio): non esiste una Chiesa che insegna e una che passivamente si lascia istruire, ma esiste una sola Chiesa in cui vi è il clero e vi sono i laici e ognuno ha il posto di lavoro che gli compete. Molti laici si sentono trattati come minorenni, mentre vorrebbero essere trattati da adulti e partecipare in modo più attivo alla vita della Chiesa.
5 – La Chiesa è chiamata a dare risposte agli interrogativi degli uomini d’oggi su quale sarà il futuro dell’umanità, che sta vivendo profondi cambiamenti, dovuti anche al prodigioso e talvolta preoccupante progresso della scienza (timore di un conflitto atomico). Molti guardano perciò alla Chiesa, Mater et Magistra, nella speranza che essa tuteli i valori essenziali dell’umanità, e ripongono quindi grandi speranze nel Concilio.
Perciò il Concilio si impegnerà anche a dire che cosa la Chiesa pensa su problemi quali la dignità della persona umana, l’inviolabilità della vita, la famiglia, la giustizia sociale, la guerra e la pace, la fame, l’evangelizzazione dei poveri, ecc.
38 – Una sintesi del giornale L’Avvenire d’Italia
Può essere interessante, prima di tutto, vedere ciò che il quotidiano bolognese L’Avvenire d’Italia, diretto dal 1961 al 1967 da Raniero La Valle (nella foto) e da cui derivò nel 1968 l’attuale Avvenire, riporta il 2 ottobre 1963, dopo la 38^ Congregazione generale, cioè dopo il primo giorno di discussione sullo schema De Ecclesia: «Gli interventi di questa mattina hanno rivelato in modo crescente il consenso dei Padri conciliari allo schema De Ecclesia [lo schema Philips di cui si è detto al n. 37] presentato ieri al loro esame. Con insistenza è stata sottolineata la validità dello schema come base di un costruttivo e fecondo lavoro conciliare». Gli interventi hanno insistito su tre punti, così sintetizzati dal medesimo quotidiano: «1 – Lo schema presenta un’immagine troppo statica della Chiesa, occorre invece accentuare la natura dinamica della Chiesa che tende continuamente al Regno di Dio, e sulla terra è incaricata, per missione specifica, dell’evangelizzazione; 2 – lo schema non accenna al ruolo ecclesiale della Madonna, che è Madre di Cristo e dunque Madre della Chiesa. E’ vero che della Madonna si parla in uno schema a parte, ma varie ragioni teologiche, pastorali ed ecumeniche suggeriscono di conglobare questo schema nel testo De Ecclesia; 3 – lo schema non rileva a sufficienza che la collegialità episcopale è una struttura ordinaria normale della Chiesa; sarebbe augurabile una maggiore precisione dei rapporti che intercorrono tra il Collegio dei Vescovi, il Papa e la Chiesa universale».
37 – Si riprende con lo schema sulla Chiesa (De Ecclesia)
La 37^ Congregazione generale (30 settembre 1963) riprende i suoi lavori con l’esame dello schema De Ecclesia rielaborato, durante l’intersessione, dal teologo belga Gerard Philips (nella foto) sulla base dello schema precedente della Commissione dottrinale, che era stato pesantemente criticato e, in sostanza, bocciato al termine della prima sessione (cfr. n.31). In questo nuovo schema i capitoli sono stati ridotti da 11 a 4: 1-Il Mistero della Chiesa; 2-La costituzione gerarchica della Chiesa e i vescovi chiamati a governarla in comunione col Papa (collegialità); 3-Il popolo di Dio e i laici; 4-La chiamata alla santità di tutta la Chiesa. Lo schema, nel suo insieme, viene approvato da quasi tutti i Padri, ma la discussione sui 4 capitoli, che fa registrare moltissimi interventi sia scritti che orali, si protrae per tutto il mese di ottobre fino alla congregazione 59^. Dall’1 al 3 ott. (congr. 38-40) si dibatte sul proemio e sul cap. 1; dal 4 al 16 ott. (congr. 41-49) si discute sul cap. 2; dal 17 al 24 ott. (congr. 50-56) sul cap. 3; dal 25 al 31 ott. (congr, 56-59) sul cap. 4.
I temi su cui soprattutto verte il dibattito e il confronto tra le diverse posizioni sono: l’immagine e la definizione che la Chiesa dovrebbe dare di se stessa; la collocazione della figura di Maria in rapporto alla Chiesa; la collegialità episcopale e il rapporto col primato del Papa; la costituzione gerarchica della Chiesa; il diaconato permanente; il popolo di Dio e la collocazione del relativo capitolo all’interno del De Ecclesia; in quale modalità i cristiani separati appartengono alla Chiesa.
Vedremo pertanto, nelle prossime puntate, gli interventi di alcuni partecipanti sui temi ora accennati, da cui si dovrebbe intuire l’importanza attribuita al De Ecclesia e come siano emerse, in proposito, concezioni spesso molto diverse, le quali hanno dato luogo a dibattiti molto accesi, che stanno a dimostrare, tra l’altro, la grande vivacità che ha caratterizzato le congregazioni conciliari.
36 – Il discorso di Paolo VI per l’apertura del secondo periodo (29 settembre 1963)
Il Papa (nella foto) richiama il discorso inaugurale di Giovanni XXIII Gaudet Mater Ecclesia citando le parole con cui egli aveva affermato lo scopo pastorale del Concilio: «Il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace, nei modi richiesti dai tempi moderni». Il cammino, che ora riprende, deve avere Cristo come «nostro principio, nostra via e guida, nostra speranza e nostro termine». Paolo VI indica poi i quattro scopi principali del Concilio: 1 – Indagare più a fondo ciò che la Chiesa è e ciò che essa pensa di sé per comprenderne sempre meglio l’intima essenza e darne una definizione che faccia capire la sua reale costituzione e la sua missione salvifica. 2 – Il rinnovamento della Chiesa, che deve riportare se stessa alla conformità col suo fondatore; ciò non significa una rottura con ciò che «la tradizione ha di essenziale e di venerabile, ma spogliarla di ogni caduca e difettosa manifestazione». 3 – Il ritorno all’unità della Chiesa: la Chiesa di Cristo è una sola e perciò dev’essere unica e ciò può avvenire anche rispettando la varietà di espressioni linguistiche, di forme rituali, di tradizioni storiche; «questo Concilio apre le porte, attende ansioso le tante pecore di Cristo, che nell’unico ovile tuttora non sono». 4 – Iniziare un dialogo col mondo contemporaneo: occorre «aprire le porte di quest’assemblea e gridare al mondo un messaggio di saluto, di fraternità e di speranza». La Chiesa guarda al mondo con profonda comprensione: guarda a tutta l’umanità che soffre e che piange; guarda agli uomini della cultura, ai lavoratori, ai governanti, «a quelle religioni che conservano il senso e il concetto di Dio, unico, creatore, provvido, sommo e trascendente, perché tutto ciò che in esse è di vero, di buono, di umano, la Chiesa lo apprezza».
35 – La morte di Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo VI: il Concilio continua
Lunedi 3 giugno 1963, alle 19.45, Papa Giovanni, malato già da tempo, muore. Nel discorso funebre in sua memoria tenuto a Milano il 7 giugno, il Cardinale Giovan Battista Montini dice che Giovanni XXIII ha saputo conciliare la verità con la carità: la verità non è fatta per dividere gli uomini, ma per attrarli all’unità e alla fratellanza. Il Papa defunto ha espresso l’universalità della Chiesa cattolica favorendo i rapporti con nazioni antiche e nuove e inserendo nella gerarchia della Chiesa persone di ogni provenienza. Col Concilio ha posto le condizioni per una collaborazione dei vescovi al governo della Chiesa e ha promosso l’ecumenismo favorendo gli sforzi per il ritorno all’unità della Chiesa e per la diffusione della pace tra i popoli.
Nel conclave successivo, il 21 giugno 1963, viene eletto Papa proprio il Cardinal Montini, che assume il nome di Paolo VI (nella foto).
Risulta subito evidente la continuità tra il suo pontificato e quello di Roncalli: infatti, nel radiomessaggio del 22 giugno, Paolo VI dichiara che egli proseguirà con ogni impegno il Concilio a cui sono fissi gli occhi di tutti gli uomini di buona volontà: «Questa sarà l’opera principale per cui intendiamo spendere tutte le energie che il Signore ci ha date».
A questa dichiarazione, il 27 giugno fa seguito l’annuncio che la seconda sessione del Concilio inizierà il 29 settembre 1963.
Nell’omelia del giorno della sua incoronazione (30 giugno) Paolo VI esprime, in particolare, il desiderio di affrettare il giorno in cui si realizzerà la preghiera di Gesù Ut unum sint, cioè il ritorno all’unità tra cattolici e fratelli separati, tanto auspicata già da Giovanni XXIII, e la necessità che la Chiesa dialoghi col mondo moderno: la giustizia e la pace, a cui esso aspira, sono valori che la Chiesa considera anche propri; essa intende perciò offrire all’umanità il rimedio ai mali che la affliggono: Cristo e le sue insondabili ricchezze.
34 – Il ruolo determinante della Commissione di coordinamento
La Commissione di coordinamento, costituita dal Papa il 6-12-1962, a cui si è accennato al n. 32, è formata inizialmente dai Cardinali Cicognani (presidente), Liénart, Suenens, Spellman, Dopfner, Confalonieri, Urbani. Ad essi si aggiungono, sotto Paolo VI, i Cardinali Agagianian, Lercaro, Roberti.
Suo compito è quello di preparare il secondo periodo del Concilio stimolando le commissioni conciliari ad accelerare il loro ritmo di lavoro e a tener conto delle osservazioni e proposte di modifiche agli schemi preparatori discussi nel primo periodo. Si può notare infatti, durante i mesi dell’intersessione, una forte resistenza, da parte di coloro che avevano contribuito alla preparazione degli schemi, a recepire le richieste di cambiamenti e di una diversa impostazione dei testi emerse durante le discussioni conciliari e favorite dallo stesso Giovanni XXIII.
La Commissione di coordinamento si riunisce complessivamente sei volte, dalla fine di gennaio al 26 settembre 1963: essa esamina tutti gli schemi di cui si occupano le diverse commissioni conciliari e controlla se tali schemi siano stati rivisti conformemente alle correzioni richieste e se possano essere inviati ai vescovi. Di fatto, ben 13 schemi vengono inviati ai vescovi perché li esaminino prima della ripresa del Concilio, una parte a maggio, una parte a luglio 1963. La Commissione stabilisce inoltre che nella seconda sessione l’assemblea conciliare discuta gli schemi relativi ai seguenti argomenti: la Chiesa; la Beata Vergine Maria; i vescovi; l’apostolato dei laici; l’ecumenismo.
La Commissione di coordinamento, infine, introduce dei rappresentanti del laicato cattolico nei lavori della commissione sull’apostolato dei laici e di quella sulla Chiesa nel mondo [in foto: le uditrici al Concilio].
33 – Impressioni di alcuni protagonisti sulla prima sessione del Concilio
L’esperienza nuova del Vaticano II, l’importanza di esso, la maggiore consapevolezza della responsabilità, come pastori della Chiesa, acquisita dai Padri conciliari al termine della prima sessione, risultano evidenti dalle affermazioni di alcuni protagonisti e studiosi di tale evento.
Il cardinale indiano Gracias dice: «Abbiamo imparato a camminare con le nostre gambe», per sottolineare la graduale autonomia, rispetto alla Curia romana, che l’assemblea conciliare ha raggiunto in due mesi di lavori assembleari.
Il teologo francese domenicano D. Chenu (nella foto) scrive: «Dopo i primi contatti, ho avuto la felice impressione che l’isolamento di ciascun vescovo sia stato sostituito da un vivo sentimento di solidarietà nei confronti dei problemi generali. Molto presto questa solidarietà ha preso corpo in collegamenti attivi con altri gruppi di vescovi ed è sfociata in organismi di lavoro. Questo stesso fenomeno si è prodotto per l’insieme delle conferenze episcopali».
I.Congar (nella foto), altro teologo francese domenicano, afferma:
«L’episcopato si è trovato, ha preso coscienza di se stesso. Ciascuno dei partecipanti vede le cose altrimenti, è esaltato dalla partecipazione ad altre umanità, ad altri orizzonti che scopre, realizza in pienezza la solidarietà e la responsabilità mondiali dell’episcopato. Ogni vescovo si sente membro di un corpo: il corpo dei Pastori apostolici di cui Gesù Cristo è il capo invisibile».
Lo storico G. Alberigo scrive: «Il confronto reso possibile dal Concilio genera una libertà sconosciuta nel cattolicesimo, al punto da sorprendere anche gli osservatori non cattolici… la crescita di consapevolezza di un’assemblea che scopriva di poter prendere in mano il proprio destino, di non essere un’assemblea di “uomini-sì”, convocati solo ad approvare una sintesi di quanto avevano appreso trent’anni prima durante gli studi teologici».
32 – La conclusione del primo periodo
L’8 dicembre 1962 Giovanni XXIII chiude il primo periodo del Concilio con un discorso ai Padri suddiviso in tre parti:
Inizio del Concilio: il Papa ricorda lo schema da cui, il 22 ottobre, ha avuto inizio il dibattito conciliare, cioè quello sulla Liturgia, che riguarda i rapporti dell’uomo con Dio e, perciò, posto in apertura dei lavori.
Sviluppo del Concilio: i lavori continueranno anche nella intersessione tra il primo e il secondo periodo, che inizierà l’8 settembre 1963; durante questi mesi una nuova commissione dovrà coordinare i lavori delle commissioni conciliari, perciò ogni vescovo continuerà a studiare e approfondire gli schemi che gli verranno inviati da Roma. La speranza del Papa è che il Concilio possa concludersi con la prossima sessione, che coinciderà con il quarto centenario della fine del Concilio di Trento (1563).
Frutti del Concilio: si spera che essi giovino a tutti, quindi anche ai fratelli separati e ai non cristiani. Tutti, vescovi, clero e laici, dovranno impegnarsi ad attuare le disposizioni del Concilio: sarà veramente una nuova Pentecoste che farà fiorire la Chiesa, sarà un nuovo balzo in avanti del Regno di Cristo nel mondo.
Un mese dopo, nella lettera Mirabilis ille del 6 gennaio 1963 il Papa invita i vescovi a rimanere spiritualmente uniti nei mesi dell’intersessione con i fratelli nell’episcopato e a partecipare col massimo impegno alla ripresa dei lavori; il Concilio di Gerusalemme di At 15 dovrà costituire il perfetto modello di Concilio al quale richiamarsi. Grande è l’attesa dei fedeli nei confronti dei frutti del Concilio, al cui buon esito tutti devono contribuire anche con la preghiera. Esso riguarda non solo i cattolici, ma tutti gli uomini e i cristiani delle altre Chiese, di cui alcuni delegati sono stati invitati come osservatori: ciò può essere l’inizio di un processo che riporti i cristiani all’unità voluta da Cristo stesso.
P.S. Con la fine del primo periodo del Concilio, si interrompe momentaneamente, per la pausa estiva, la nostra rubrica. Essa riprenderà nel mese di settembre con il secondo periodo conciliare. Si ringraziano tutti coloro che finora ci hanno seguito e a tutti i nostri più sinceri auguri di una buona e serena estate.
31 – Lo schema sulla Chiesa
Il 1° dicembre 1962, alla 31^ congr. generale, viene presentato dal card. Ottaviani il quinto e ultimo schema della prima sessione, il De Ecclesia, e la discussione continua fino alla 36^ congregazione del 7 dicembre, l’ultima del primo periodo. Il testo si articola in 11 capitoli. Cap. I: la natura della Chiesa militante; cap. II: i membri della Chiesa militante e la necessità di essa per la salvezza; cap. III: la natura sacramentale dell’episcopato; cap. IV: l’ufficio dei vescovi: santificazione, magistero, governo; cap. V: gli stati per acquistare la perfezione evangelica (povertà, castità, obbedienza); cap. VI: il ruolo dei laici nella Chiesa; cap. VII: il magistero nella Chiesa; cap. VIII: il principio dell’autorità nella Chiesa; cap. IX: rapporti tra Chiesa e Stato; cap. X: il dovere di annunciare il Vangelo a tutti i popoli; cap. XI: i principi dell’ecumenismo.
Lo schema viene pesantemente criticato da molti Padri che vi vedono una Chiesa presentata in modo troppo giuridico, chiusa in sé, lontana dallo spirito delle beatitudini, un linguaggio non rispondente allo scopo assegnato dal Papa al Concilio, cioè quello di parlare agli uomini d’oggi in modo intelligibile; insufficiente appare il discorso relativo all’episcopato, al rapporto tra laici e clero, al primato del Papa che è isolato dal resto della gerarchia, come se ci fosse solo lui e non anche i vescovi; non si tiene conto del pensiero orientale; parlando di Chiesa, si deve dare il primo posto alla dottrina evangelica della povertà e alla dignità dei poveri, nei quali è presente Cristo. Significativo l’intervento del card. Montini alla 34^ congr. generale: due sono i cardini attorno a cui devono disporsi tutte le questioni del Concilio: che cos’è la Chiesa e che cosa fa la Chiesa, cioè in che cosa consiste il mysterium Ecclesiae e il munus Ecclesiae.
30 – Lo schema sull’unità della Chiesa
Il 26 novembre (27^ congr. generale) inizia l’esame del quarto schema, il De Ecclesiae unitate, presentato dal Card. Cicognani (nella foto), presidente della Commissione per le Chiese orientali non
cattoliche, col titolo Ut omnes unum sint, riguardante solo l’unione con gli Orientali non cattolici (e quindi non con le Chiese del mondo protestante); il dibattito si protrae durante la 28^, 29^ e 30^ congregazione, cioè fino al 29 novembre.
Parte 1^: l’unità della Chiesa fondata su Pietro e i suoi successori; la Chiesa non può né volere né desiderare l’unità a scapito della verità, ma si è tenuto conto delle difficoltà dei fratelli orientali separati, per avvicinarsi il più possibile al loro modo di pensare e di esprimersi, facendo, per esempio, largo uso della Scrittura. Parte 2^: i mezzi più idonei per la riconciliazione sono di carattere teologico, liturgico, giuridico, psicologico e pratico. La Chiesa cattolica, pur essendo in possesso della verità, non deve tralasciare nulla per giungere all’unità. Parte 3^: i modi e le condizioni della riconciliazione nel rispetto di tutto ciò che fa parte del patrimonio religioso, storico e psicologico della Chiesa Ortodossa.
Un giudizio negativo viene espresso soprattutto da alcuni Padri delle Chiese orientali (Antiochia, Alessandria d’Egitto, Damasco) che valutano lo schema troppo giuridico e autoritario, poco ecumenico, privo di spirito pastorale. Si avverte inoltre l’esigenza di una Chiesa decentralizzata, di un ritorno anche dei cattolici ai fratelli separati.
Dalla maggior parte degli interventi comunque il documento viene valutato positivamente, pur con alcune necessarie modifiche da introdurre nel testo. Alla 31^ congr. generale del 1 dicembre si passa a una votazione orientativa sullo schema, con il seguente esito: voti a favore: 2068; contrari: 36.
29 – Intermezzo (segue)
Il Card. indiano Gracias: “Siamo grati al Papa di averci concesso il privilegio di pensare quel che diciamo e di dire quel che pensiamo”.
Giovanni XXIII, un mese dopo l’inizio del Concilio: “Le voci di oggi in gran parte sono di critica agli schemi proposti (card. Ottaviani) che, preparati da molti insieme, rivelano però la fissazione un po’ prepotente di uno solo e una mentalità che non sa divincolarsi dal tono della lezione scolastica” (dal suo Diario).
Mons. Piazzi, vescovo di Bergamo, al termine del primo periodo, dice: “L’assenza di conclusioni definitive potrebbe sembrare un insuccesso: è segno invece di serietà e di coscienza della immensa responsabilità dei Padri”.
Il Card. Lercaro, vescovo di Bologna, alla fine del primo periodo, dice ai suoi sacerdoti: “La Chiesa passa dalla difesa alla conquista, va incontro al mondo, Maestra sempre, ma soprattutto Madre, per offrire al mondo il messaggio di salvezza.” (L’Avvenire d’Italia, 9/1/1963).
Mons. Bettazzi (nella foto), allora vescovo ausiliare di Bologna, divenuto poi vescovo di Ivrea, oggi 98enne, scrive che in occasione del Concilio gli fu evidente “cos’era la Chiesa cattolica: vescovi di tutti i continenti, con la loro storia e la loro cultura, rendevano quel Concilio antropologicamente ecumenico…nel Vaticano II gli africani erano nati e cresciuti in Africa, i latinoamericani nell’America meridionale, gli asiatici per gran parte in Asia”.
Per concludere, un commento del teologo domenicano francese I. Congar sul Papa del Vaticano I: “Più ci penso, più trovo che Pio IX sia stato un uomo meschino e rovinoso. E’ il primo responsabile dell’orientamento negativo che ha pesato per 60 anni sul cattolicesimo francese. Ha sprofondato la Chiesa nella rivendicazione del potere temporale, ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo, che pure aveva bisogno di lei” (dal Diario del 14 ott. 1962).
28 – Intermezzo (talvolta anche divertente)
Un modo colloquiale e informale (!) con cui ci si rivolge a un cardinale nella fase preparatoria del Concilio: “Eminenza Reverendissima, ho l’onore di umiliare a V. E., in ossequio alla richiesta…, i voti dei Rev.mi Professori di questa Pontificia Università per il prossimo Concilio Ecumenico…il Corpo Accademico si tiene a completa disposizione dei venerati comandi di V. E. Prostrato al bacio della s. Porpora con i sentimenti della più profonda devozione e riverenza, mi protesto dell’E. V. obbl.mo e umil.mo in Domino figlio”.
Il Card. Siri (nella foto), vescovo di Genova, alla vigilia del Concilio: “Il pastoralismo pare una necessità, mentre è, prima che un metodo deteriore, una posizione mentale erronea. Le aree francesi-tedesche non hanno mai eliminato del tutto la pressione protestantistica. Bravissima gente, ma non sanno di essere i portatori di una storia sbagliata. La calma romana servirà”.
Il Card. Siri a proposito del messaggio dei vescovi al mondo: “Taluni non hanno un’idea molto elevata di un concilio ecumenico e questo mi fa pena”.
Ancora Siri alla vigilia della votazione sul De fontibus: “La faccenda è grave, se domani lo schema cade! Signore aiutaci! Santa Vergine, San Giuseppe pregate per noi! Tu sola distruggesti tutte le eresie in tutto il mondo!”.
Il Card. Ottaviani durante il dibattito sulla Liturgia: “Il prurito delle novità insiste su cose che non solo non sono necessarie, ma neppure utili, anzi possono essere anche dannose”.
Scrive A. Spada: “Ottaviani vede eretici e attentati al patrimonio della Fede e cedimenti da tutte le parti, in contrasto col tono generale del Concilio” (dal Diario del 14 nov. 1962).
Peruzzo, vescovo di Agrigento: “In Concilio ho a volte l’impressione di trovarmi in un asilo di pazzi e per i pazzi c’è una sola via d’uscita: rinchiuderli” (continua).
.
27 – Il Concilio visto da Indro Montanelli
Il giornalista I. Montanelli (nella foto) interviene nelle vicende conciliari con tre articoli sul Corriere della Sera del 24, 25, 26 novembre 1962: soffermiamoci sul primo e sul terzo.
Titolo del primo: Restituendo libertà all’episcopato il Papa ha rinunciato all’assolutismo. Il giornalista sostiene che il Concilio fu indetto da Giovanni XXIII per esprimere implicitamente la propria rinuncia a esercitare il dogma dell’infallibilità, proclamato al Vaticano I, ma sgradito allora a molti vescovi, per restituire all’episcopato piena libertà e responsabilità di decisione e riportare quindi nella Chiesa un criterio di direzione collegiale, contro l’assolutismo, il monolitismo e l’intransigenza verso le altre Chiese cristiane.
Titolo del terzo articolo: Sottile ma anche concitato il dialogo tra Curia romana e vescovi stranieri. Montanelli presenta i Cardinali Bea, tedesco, e Alfrink, olandese, come gli ispiratori di un movimento riformista nel modo di interpretare la Scrittura per riavvicinarsi ai fratelli separati. Alfrink non nasconde i suoi sentimenti antiromani; c’è un contrasto quasi permanente tra la Curia romana e gli episcopati stranieri, dove il clero cattolico deve convivere con quello protestante; è perciò evidente nel Concilio lo scontro fra la tendenza conservatrice della Curia e quella riformista incarnata soprattutto da Bea e Alfrink.
Dura la critica della stampa cattolica, di cui si può considerare un esempio eloquente l’articolo che Andrea Spada, direttore de L’Eco di Bergamo, scrive il 27 novembre: “…Nei suoi articoli c’è una confusione di persone, di date, un’incredibile superficialità sugli stessi termini della materia di cui confessa di non intendersene. Montanelli ha offerto un doloroso esempio di voler politicizzare tutto, di voler vedere tutto in chiave di conservatorismo e di progressismo, di destra e di sinistra”.
26 – Lo schema sugli strumenti di comunicazione sociale (segue)
Il dibattito sullo schema continua durante la 26^ e la 27^ congregazione generale: esso viene accolto in modo positivo. Molti interventi sottolineano l’importanza dei mezzi di comunicazione sociale come strumenti validi per la predicazione del Vangelo, per la collaborazione tra cattolici e protestanti, per difendere i fondamentali diritti umani, per contribuire alla collaborazione tra la Chiesa e organizzazioni a livello mondiale. Vengono espresse anche delle critiche: la lunghezza dello schema; lo scarso spazio dato ai laici, che hanno invece, in questo campo, una competenza maggiore di quella del clero; la sottovalutazione dei pericoli, per la fede e la morale, derivanti dall’uso di tali mezzi.
Il 27 novembre, alla 28^ congregazione generale, si vota lo schema nel suo complesso, con le modifiche richieste: voti a favore: 2138; voti contrari:15.
Una figura da ricordare per l’impegno in questo ambito è quella di don Giacomo Alberione (1884-1971) (nella foto), che nel 1914 fonda la Pia Società San Paolo per diffondere il Vangelo con gli strumenti della comunicazione sociale: basti ricordare la rivista Famiglia Cristiana nata nel 1931.
Don Alberione ha partecipato sia alla fase preparatoria che all’effettivo svolgimento del Concilio con numerose proposte, quali: diffondere la Bibbia, accompagnata da note catechistiche, perché entri in ogni famiglia; favorire l’apostolato dei laici; “dare impulso ai mezzi moderni e tecnici, atti a divulgare sempre più la verità cattolica: radio, cinema, televisione”. Da ciò si può capire la grande soddisfazione di don Alberione quando il Concilio, alla fine della 2^ sessione (1963), approva il decreto sui mezzi di comunicazione sociale che inizia con le parole Inter mirifica, in cui la Chiesa dichiara “apostolato” l’attività alla quale egli aveva dedicato tutta la propria vita.
25 – Ecumenicità
Sul significato di “ecumenicità” in riferimento allo schema De fontibus Revelationis, il Vescovo di Bruges E. De Smedt, a nome del Segretariato per l’unione dei non cristiani, che aveva il compito di aiutare le altre commissioni a redigere i loro schemi con spirito ecumenico, dice che occorre dare importanza al modo in cui la dottrina viene espressa, affinché essa venga compresa dall’altro. A tal fine è necessario conoscere bene: quale sia la dottrina attuale degli ortodossi e dei protestanti; quale idea essi hanno della nostra dottrina; che cosa nella dottrina cattolica essi ritengono mancante o non sufficientemente sviluppato; se il nostro modo di parlare contiene formule o modi di dire difficili a capirsi dai non cattolici. Poiché, secondo De Smedt, lo schema presentato è carente in questi aspetti, esso è privo di spirito ecumenico. Egli conclude con un giudizio molto duro: “Questo schema è carente dal punto di vista unionistico. Per il dialogo con i non cattolici, non costituisce un progresso, ma un regresso, non un aiuto, bensì un impedimento e un danno”.
Lo schema sugli strumenti di comunicazione sociale
Dopo la sospensione del dibattito sul De fontibus Revelationis, nella 25^ Congregazione generale (23 novembre) viene presentato dal vescovo francese R. Stourm lo schema De instrumentis communicationis socialis. Struttura: Introduzione. Parte I, cap.1: diritto e dovere della Chiesa di occuparsi dei mezzi di comunicazione sociale; capp. successivi: i mezzi adeguati per la difesa dell’ordine morale oggettivo e i doveri della società in relazione a tale materia. Parte II: il valore apostolico dei mezzi di comunicazione per l’annuncio del messaggio cristiano e gli strumenti finalizzati a ciò, come giornali, cinema, radio, televisione (nella foto una copia di un’edizione del testo finale promulgato nel 1963) (continua).
24 – Pastoralità ed ecumenicità: due requisiti indispensabili
A parere di molti Padri, lo schema De fontibus presentato dalla commissione teologica presieduta da Ottaviani, era carente di due connotazioni fondamentali che secondo il Papa stesso avrebbero dovuto caratterizzare il Concilio: la pastoralità, indispensabile perché la dottrina della Chiesa Cattolica venga accolta “da tutti, in questo nostro tempo, con nuovo ardore”, e l’ecumenicità a cui erano molto sensibili i fratelli separati. Vediamo oggi che cosa si intende con “pastoralità”.
Il Cardinale di Colonia J. Frings (nella foto lo vediamo a colloquio col giovane J. Ratzinger, futuro Benedetto XVI, che partecipò al Concilio come teologo dello stesso cardinale) così dice: “Nello schema mi sembra non vi sia e non si senta la voce della Chiesa Madre e Maestra, la voce del buon Pastore che chiama le pecore per nome, e le pecore ascoltano la sua voce, ma piuttosto la lingua scolastica, professorale, che non edifica né vivifica. Si sente la mancanza di quella impronta pastorale di cui Papa Giovanni tanto ardentemente desidera che tutti gli enunciati del Concilio Vaticano II siano imbevuti”.
Il Vescovo di Savona G. B. Parodi in una lettera alla sua diocesi del 21 nov. 1962 così spiega: “Si tratta anche di tenere conto della realtà del nostro tempo, che conta masse imponenti di operai scristianizzati e gruppi di intellettuali radicalmente laicizzati; che vede il mondo cristiano separato, riformati e ortodossi, muoversi verso la ricerca di una unità ecumenica…Impostazione pastorale quindi non significa abbandonare le verità acquisite e definite e adottare uno stile di compromesso, ma enucleare nel modo più chiaro e sintetico le verità fondamentali e proporle nel modo più vitale e leale, tenendo sempre conto delle mentalità, delle culture, dei pregiudizi, delle aspirazioni degli individui e dei gruppi, dei vicini e dei lontani”.
23 – Lo schema sulle fonti della Rivelazione: un dibattito molto acceso
Alla 19^ congregazione generale (14 novembre 1962) inizia il dibattito sullo Schema De fontibus Revelationis, che continua fino alla 24^ congregazione del 20 novembre.
Lo schema, elaborato dalla commissione dottrinale presieduta dal Card. Ottaviani (nella foto), dopo
un’introduzione fatta allo scopo di prevenire le possibili obiezioni, viene di fatto subito duramente criticato da molti Padri (cardd. Liénart, Léger, Frings, Suenens, Alfrink, Dopfner, De Smedt) perché considerato troppo scolastico, dottrinale, poco biblico, privo di quel carattere pastorale richiesto dal Papa nel suo discorso inaugurale Gaudet Mater Ecclesia, a cui si richiamano molti dei relatori. In particolare, un’affermazione ripetutamente criticata e contestata è quella secondo cui due sono le fonti della Rivelazione, cioè Scrittura e Tradizione: a ciò si obietta che l’unica fonte della Rivelazione è Cristo, da cui Scrittura e Tradizione derivano. Oltre alla discussione sullo schema complessivo, inizia anche l’esame del cap. I, finché, a causa della profonda spaccatura creatasi nell’assemblea (da un lato la posizione della Commissione teologica rappresentata da Ottaviani, favorevole allo schema, dall’altro quella di coloro che ne richiedevano il ritiro e il rifacimento totale), alla 23^ congregazione si mette ai voti la richiesta di interrompere il dibattito: votanti 2209; per sospenderlo (in quanto contrari allo schema): 1368; per continuarlo (in quanto favorevoli): 822; maggioranza richiesta per la sospensione: 1473; pertanto la discussione riprende il giorno dopo alla 24^ congregazione, ma viene poi interrotta in seguito alla lettura di un comunicato del Papa, che stabilisce che venga costituita una commissione mista per riesaminare e rielaborare lo schema complessivo del De fontibus e riproporlo più avanti alla discussione e votazione del Concilio.
22 – Il problema della lingua nella liturgia (continuazione)
Un altro vescovo indiano, S. Simons, afferma che ormai anche gran parte del clero ha poca familiarità col latino e legge i documenti della Chiesa nella propria lingua; inoltre il latino, invece di unire, divide il clero dal popolo, la Chiesa latina dai non latini, la Chiesa cosiddetta occidentale dai non cristiani.
Maximos IV, Patriarca di Antiochia di Siria (nella foto), dice di ritenere strano che chi presiede la liturgia debba usare una lingua diversa da quella della propria assemblea liturgica obbligata a pregare in una lingua che non comprende: una chiesa viva “non sa che farsene di una lingua morta”; egli propone perciò che le conferenze episcopali possano definire il limite di utilizzo di una lingua viva nella liturgia e sottolinea che anche molti vescovi presenti al Concilio non comprendono ciò che viene lì detto, perché essi non parlano mai in latino.
La votazione sul proemio e il cap. I dello schema, tenutasi il 7 dicembre 1962 alla 36^ ed ultima congregazione della prima sessione, dà questi risultati: voti a favore 1922, contrari 11, a favore, ma con modifiche, 180. Per gli altri capitoli bisognerà attendere la seconda sessione.
“Questo risultato piuttosto positivo”, dice G. Alberigo “diede una sicura base ai principi fondamentali del rinnovamento liturgico del Concilio. Anche il Papa espresse la propria soddisfazione per questo risultato iniziale”.
Nell’art. 10 del cap. I così viene definita la liturgia: “Il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua energia”.
L’art. 36 recepisce invece la richiesta di poter ricorrere alle lingue nazionali: “Poiché, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni”.
21 – Il problema della lingua nella liturgia
Argomentazioni in favore del latino: timore che i cambiamenti nella liturgia (la messa in particolare) introducano mutamenti nei dogmi; timore che l’uso delle lingue volgari metta a rischio l’unità dei popoli cristiani, simboleggiata dall’unità della lingua; superiorità del latino, chiaro e preciso per la formulazione del magistero della Chiesa; il latino avrebbe conservato il senso di mistero della liturgia; la lingua volgare già in uso nelle chiese protestanti aveva condotto alla loro frammentazione e ciò sarebbe potuto accadere anche nella Chiesa cattolica; l’introduzione del volgare nelle missioni avrebbe causato dei problemi, per la molteplicità delle lingue locali in quei territori.
Argomentazioni in favore delle lingue volgari: il volgare avrebbe permesso una partecipazione più attiva dei fedeli alla liturgia eucaristica, poiché ormai molte persone, soprattutto nei paesi di missione, non conoscevano affatto il latino; la liturgia era luogo privilegiato anche per l’istruzione dei fedeli e ciò era possibile solo se la lingua usata era per essi comprensibile.
Molti sono stati gli interventi dei Padri in favore dell’una o dell’altra posizione: significativi quelli di alcuni vescovi di paesi non italiani e di paesi di missione a sostegno della necessità di utilizzare le lingue locali. Per es. il vescovo ausiliare di Parigi J. Le Cordier, afferma: “La Chiesa sarà Maestra insegnando e nutrendo la fede nella lingua in cui i cristiani stessi ogni giorno annunciano Cristo. La Chiesa sarà Madre pregando nella lingua dei suoi figli”; L. La Ravoire Morrow, nato negli Stati Uniti ma divenuto vescovo di una diocesi dell’India, sostiene l’uso del volgare per ragioni pastorali (partecipazione attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche e comprensione di ciò che vi veniva detto) ed ecumeniche (come segno di benevolenza verso i fratelli separati, per i quali il latino costituisce spesso un ostacolo) (segue).
20 – Struttura e discussione sullo schema della Costituzione sulla Sacra Liturgia
Introduzione generale, in cui si spiega l’importanza della liturgia nella vita della Chiesa. Seguono otto capitoli: 1- Principi generali per la promozione e il rinnovamento della liturgia; 2- Il mistero dell’Eucaristia; 3- Sacramenti e sacramentali; 4- L’ufficio divino; 5- L’anno liturgico; 6- Le sacre suppellettili; 7- La musica sacra; 8- L’arte sacra.
Molti Padri esprimono un giudizio favorevole sullo schema proposto, soprattutto per il suo carattere pastorale, l’equilibrio tra rinnovamento e conservazione dei riti, il suo carattere biblico, la possibilità di usare la lingua volgare, la promozione di un’attiva partecipazione alla liturgia da parte dei fedeli, l’incoraggiamento agli studi sulla liturgia. La valutazione positiva che ne viene data è dimostrata dalla votazione sullo schema complessivo tenutasi alla 19^ congregazione del 14 novembre, dopo gli interventi di 325 Padri durante le 15 congregazioni precedenti: 2162 voti a favore, 46 contrari.
Punti dello schema liturgico maggiormente discussi durante il dibattito: lingua latina o lingua volgare; concelebrazione, sì o no; comunione sotto le due specie; potere dei vescovi nella riforma liturgica; riforma del breviario, del messale e del rituale; unzione degli infermi.
Poiché uno degli argomenti più dibattuti è stato quello della lingua da usare, specialmente durante la celebrazione eucaristica con i fedeli, la prossima volta vedremo le principali argomentazioni in favore del mantenimento del latino, come molti vescovi avrebbero voluto, e quelle in favore dell’adozione delle lingue delle diverse nazionalità.
La prima celebrazione eucaristica in lingua italiana è stata celebrata da Paolo VI il 7 marzo 1965 nella Parrocchia Ognissanti a Roma
19 – Inizia la discussione sugli schemi
Nel primo periodo del Concilio vengono presentati e discussi dai Padri gli schemi di cinque argomenti: Liturgia, Rivelazione, Chiesa, Unità della Chiesa, Mezzi di comunicazione sociale.
Per nessuno di essi si giunse, al termine della prima sessione, ad una approvazione definitiva e totale del testo come oggi noi possiamo leggerlo: i primi furono approvati soltanto alla fine della seconda sessione, nel 1963. L’iter prevedeva dapprima la discussione e l’eventuale approvazione dell’impianto complessivo di ogni singolo schema (ma spesso gli schemi preparati dalle commissioni preconciliari e presentati all’assemblea per l’approvazione, vennero bocciati e si dovette perciò elaborarne altri), poi l’esame dei singoli capitoli, la votazione su ognuno di essi e, infine, la votazione del testo definitivo nella sua globalità. Tutto ciò richiese tempi lunghi; inoltre spesso, durante una stessa congregazione, la discussione poteva riguardare prima un argomento, poi un altro, senza perciò attendere che il dibattito su un determinato schema giungesse alla sua conclusione definitiva prima di passare ad un altro.
Una volta costituite le nuove commissioni conciliari secondo la proposta del card. Liénart, si passò all’esame degli schemi in questo ordine: per primo quello sulla Liturgia, dalla 4^ alla 19^ congregazione (22 ottobre-14 novembre), ripreso poi alla 36^ e ultima congregazione (7 dicembre); per secondo lo schema sulla Rivelazione, dalla 19^ alla 24^ congregazione (14-21 novembre); per terzo quello sui mezzi di comunicazione sociale, dalla 25^ alla 28^ congregazione (23-28 novembre); per quarto lo schema sull’unità della Chiesa, dalla 27^ alla 31^ congregazione (26 novembre-1 dicembre); per quinto quello sulla Chiesa, dalla 31^ alla 35^ congregazione (1-6 dicembre).
18 – 13 ottobre 1962: una votazione importante
Il primo atto che i vescovi sono chiamati a compiere nella prima congregazione generale del 13 ottobre consiste nell’elezione dei componenti delle dieci commissioni conciliari che avrebbero dovuto presentare all’assemblea generale, per la discussione e l’approvazione, gli schemi già preparati dalle commissioni del periodo preparatorio. Ogni vescovo avrebbe dovuto votare 16 colleghi per ogni commissione, per un totale di 160. Data la non conoscenza reciproca tra i vescovi provenienti da ogni parte del mondo, sarebbe stato inevitabile che venissero riconfermati, nelle dieci commissioni, quegli stessi membri che già ne avevano fatto parte nella fase preparatoria e dei quali la Segreteria aveva distribuito gli elenchi ai Padri conciliari. L’intenzione era, perciò, quella di fare del Concilio un’assemblea che, in sostanza, ratificasse quanto era già stato discusso e approvato in fase preparatoria, durante la quale era risultato determinante l’indirizzo conservatore dei cardinali di Curia e, in particolare, della commissione teologica presieduta dal card. Ottaviani. Alcuni degli schemi già preparati e inviati ai Padri nei mesi precedenti avevano però lasciato insoddisfatti molti vescovi. Perciò prima della votazione, il Card. di Lille, Liénart (nella foto), chiede che il voto sia rinviato di qualche giorno perché i Padri possano conoscersi e le conferenze episcopali possano elaborare le proprie liste di candidati.
La proposta viene accolta con un applauso e inoltrata al Papa, che concede tre giorni in più ai Padri perché possano consultarsi. Comincia così ad affermarsi l’importanza delle conferenze episcopali, l’idea di collegialità e la volontà di tanti vescovi di essere protagonisti del Concilio e non semplici esecutori di direttive altrui. Il vescovo siriano Edelby scrive che la proposta di Liénart fu considerata “come un primo fallimento inflitto alla Segreteria del Concilio, che voleva condurre il Concilio con la bacchetta”. E Giovanni XXIII stesso avrebbe detto a Liénart: “Avete fatto bene a dire il vostro pensiero perché è per questo che io ho convocato i vescovi al Concilio”.
17 – La preghiera allo Spirito Santo e il messaggio dei vescovi al mondo
Ogni riunione plenaria dei Padri Conciliari (nella foto) inizia con la preghiera in latino Adsumus Sancte Spiritus: ” Siamo qui davanti a Te, Spirito Santo”, attribuita a Isidoro di Siviglia (560-636):
Siamo qui davanti a te, Spirito Santo Signore…riuniti nel tuo nome. Vieni a noi, assistici, scendi nei nostri cuori. Insegnaci tu ciò che dobbiamo fare, mostraci tu il cammino da seguire…Non permettere che da noi peccatori sia lesa la giustizia…non ci faccia sviare l’ignoranza, non ci renda parziali l’umana simpatia… affinché siamo una sola cosa in te e in nulla ci discostiamo dalla verità…fa’ che sempre sappiamo praticare la giustizia, temperandola con la pietà…e un giorno ci sia dato, per le nostre responsabilità ben adempiute, il premio eterno. Amen
Il 20 ottobre 1962 i vescovi, inoltre, approvano un messaggio per tutta l’Umanità (Nuntius ad universos homines mittendus), che esprima il desiderio di salvezza, amore e pace che Cristo ha portato al mondo e affidato alla Chiesa. Essi si propongono di esporre integra la volontà di Dio, perché “il volto di Gesù Cristo, che riflette lo splendore di Dio, appaia a tutte le genti”. Il Concilio, attento al mondo, dovrà promuovere anche un rinnovamento spirituale che dia una spinta allo sviluppo di arte, scienza, tecnica, cultura. I vescovi fanno proprie le ansie e le sofferenze dei popoli loro affidati, soprattutto dei più poveri, deboli e bisognosi: perciò essi terranno in grande considerazione ciò che ne promuove il bene e la dignità. Il loro messaggio riprende poi due punti del discorso del Papa dell’11 settembre: favorire la pace tra i popoli, poiché gli uomini sono tutti fratelli; promuovere la giustizia sociale, che può trovare un valido fondamento nella dottrina sociale della Chiesa delineata nell’enciclica Mater et Magistra, perché la vita dell’uomo divenga più umana.
I vescovi quindi, fiduciosi nello Spirito Santo, invitano tutti a collaborare perché il mondo realizzi una maggiore fraternità e in esso già cominci a risplendere il regno di Dio.
16 b – Alcune precisazioni sul Concilio e il suo svolgimento (continuazione)
Congregazioni generali: sono le riunioni plenarie dei vescovi in S. Pietro (nella foto), durante le quali vengono discussi e poi votati gli schemi presentati dalle Commissioni. Quelle del primo periodo saranno 36.
Periti: sono i consulenti del Concilio, nominati dal Papa, che possono partecipare alle Congregazioni generali e alle Commissioni; ad essi si aggiungono i periti privati, cioè quegli esperti che alcuni vescovi portano con sé, ma che non possono partecipare né alle Congregazioni generali né alle Commissioni.
Votazioni: in tutte le votazioni, sia delle Commissioni che delle Congregazioni generali, è richiesta la maggioranza dei due terzi.
Osservatori: 46 delegati delle Chiese non cattoliche invitati dal Segretariato per l’unità dei cristiani. Possono partecipare alle Congregazioni generali, non alle Commissioni.
Ospiti: 8 persone non cattoliche invitate a titolo personale, come il Priore di Taizé Roger Schutz, l’esegeta protestante Oscar Cullman.
In totale, quindi, 54 non cattolici, in rappresentanza di 17 Chiese e Comunità separate: precisamente, 14 ortodossi orientali, 40 angloprotestanti. Nel quarto e ultimo periodo essi aumenteranno fino a 90 osservatori e 16 ospiti in rappresentanza di 29 Chiese e Comunità.
Documenti finali prodotti dal Concilio: 16 in totale, di cui: 4 Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni.
Costituzioni sono detti i quattro testi fondamentali del Concilio: sulla Rivelazione, la Chiesa, la Liturgia, la Chiesa nel mondo contemporaneo.
Decreti sono detti i documenti conciliari che trattano temi più limitati rispetto a quelli delle Costituzioni.
Dichiarazioni sono detti i documenti conciliari destinati a tutta l’umanità e non solo ai fedeli cattolici.
16 a – Alcune precisazioni sul Concilio e il suo svolgimento
Concilio Ecumenico Vaticano II: è stato il ventunesimo concilio ecumenico nella storia della Chiesa.
Ecumenico: detto così perché ad esso sono stati invitati i vescovi della Chiesa cattolica di tutta l’ “ecumene”, cioè di tutti i paesi del mondo in cui essa era presente.
Vaticano II: perché si è svolto, come il Concilio Vaticano I (1870), nella Città del Vaticano.
Vescovi partecipanti: in totale 3054; al primo periodo: 2443; a tutti e quattro: 1897. Provenienti da 116 paesi diversi: 36% dall’Europa, 22% dall’America latina, 12% dall’America del nord, 20% da Asia e Oceania, 10% dall’Africa.
Sessioni: sono i quattro periodi in cui si svolse il Concilio: 1^ sessione: 11 ottobre-8 dicembre 1962; 2^ sessione: 29 settembre-4 dicembre 1963; 3^ sessione: 14 settembre-21 novembre 1964; 4^ sessione: 14 settembre-8 dicembre 1965.
Intersessioni: i periodi tra una sessione e l’altra, durante i quali le commissioni conciliari continuavano a lavorare sugli schemi in fase di discussione.
Quanto segue viene stabilito nel testo sul regolamento del Concilio del 6 agosto 1962: Appropinquante Concilio.
Consiglio di presidenza: costituito da 10 cardinali nominati dal Papa, col compito di presiedere a turno le riunioni plenarie in S. Pietro: Ruffini (Italia), Tappouni (Siria), Gilroy (Australia), Spellman (Stati Uniti), Caggiano (Argentina), Liénart (Francia), Tisserant (Francia), Pla y Deniel (Spagna), Frings (Germania), Alfrink (Olanda).
Segretario generale del Concilio: viene nominato Pericle Felici.
Commissioni conciliari: sono 10, mantengono la stessa denominazione di quelle preparatorie (vedi n. 6), tranne la 10^ che unisce quella dell’Apostolato dei laici e il Segretariato della stampa e dello spettacolo. Devono presentare gli schemi elaborati durante la fase preparatoria e introdurre gli emendamenti proposti e approvati durante i dibattiti; composta ciascuna da 25 membri, di cui 9 nominati dal Papa, 16 eletti dai vescovi. Ad esse si aggiunge il Segretariato per l’unità dei cristiani, già esistente (segue).
15 – La sera dell’11 ottobre 1962: “il discorso della luna”
Terminata la giornata inaugurale del Concilio, quella sera stessa il Papa rivolge il suo saluto alla folla radunata in Piazza S. Pietro dicendo: “Si direbbe che perfino la luna si è affrettata stasera. Osservatela in alto (nella foto), a guardare questo spettacolo. Vi è che noi chiudiamo una grande giornata di pace”.
Nel seguito del discorso il Papa si presenta come un fratello diventato Padre per volontà del Signore e accenna alla grandiosa inaugurazione del Concilio avvenuta nel giorno in cui si ricorda l’anniversario della proclamazione del dogma della divina Maternità di Maria al Concilio di Efeso del 431, a cui il Papa rivolge un’invocazione. E prima di dare la benedizione ai presenti, pronuncia le note e bellissime parole: “Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: Questa è la carezza del Papa. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza. E poi, tutti insieme ci animiamo cantando, sospirando, piangendo, ma sempre sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuare e riprendere il nostro cammino”.
Interessante, letto ora, quanto il Papa dice alla fine: “Il Concilio è incominciato e non sappiamo quando finirà. Se non dovesse concludersi prima di Natale, poiché forse non riusciremo, per quella data, a dire tutto, a trattare i diversi argomenti, sarà necessario un altro incontro”.
E di fatto ci vollero altri tre anni!
(Nel prossimo appuntamento vedremo, prima di inoltrarci nelle discussioni conciliari, alcune precisazioni utili per capire meglio le modalità di svolgimento del Concilio stesso).
14 – 11 ottobre 1962: si apre il Concilio Vaticano II
Preceduto da una processione di circa 2500 vescovi che attraversano Piazza S. Pietro (nella foto), Giovanni XXIII, sulla sedia gestatoria, fa il suo ingresso nella Basilica dove dà inizio al Concilio Vaticano II con un discorso dal ben noto incipit, Gaudet Mater Ecclesia: “Gioisce la Madre Chiesa, poiché…è sorto il giorno tanto desiderato in cui il Concilio Ecumenico Vaticano II qui solennemente inizia”.
Soffermiamoci sui nuclei più significativi di questo discorso, considerato come la bussola che avrebbe dovuto orientare e guidare i Padri nella celebrazione del Concilio stesso.
Il Papa mostra di non condividere la lettura pessimistica della situazione contemporanea da parte di coloro che lui chiama “profeti di sventura (rerum adversarum vaticinatores), che annunciano eventi sempre infausti, quasi sovrasti la fine del mondo”. Non vi è stata un’età dell’oro della Chiesa, che sarebbe poi progressivamente decaduta fino ad oggi: le difficoltà esistevano anche in passato. Ora, piuttosto, non ci sono più ingerenze dei poteri civili nel Concilio, come spesso invece accadeva in tempi trascorsi.
Compito del Concilio è non solo custodire il deposito della dottrina cristiana, ma insegnarlo in modo più efficace, rinnovato, aggiornato: è necessario “un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze…Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, altra la formulazione del suo rivestimento: di questo deve tener conto un magistero a carattere prevalentemente pastorale”.
Questo non sarà un Concilio di condanna: la Chiesa, sposa di Cristo, “preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità e ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che con la condanna”.
Il Concilio inoltre deve promuovere quell’unità che Gesù ha invocato dal Padre: unità dei cattolici tra loro, unità di preghiere con cui i cristiani separati aspirano ad essere uniti con Roma, unità nella stima e nel rispetto verso la Chiesa cattolica da parte di coloro che seguono religioni non cristiane.
13 – 4 ottobre 1962: il pellegrinaggio di Giovanni XXIII a Loreto e ad Assisi
Il 4 ottobre 1962, una settimana esatta prima del Concilio, Giovanni XXIII compie un pellegrinaggio in treno (nella foto) a Loreto e ad Assisi per invocare dalla Vergine e da San Francesco l’aiuto e l’illuminazione per un
evento tanto grande e a lungo preparato e atteso.
Si tratta della prima uscita di un Papa fuori dal Lazio dopo l’annessione di Roma allo Stato italiano nel 1870: motivo per cui stampa, radio e televisione sottolineano la portata eccezionale dell’evento. Il viaggio viene effettuato col treno del Presidente della Repubblica Italiana, partendo dalla Stazione di S. Pietro in Vaticano; il Papa è accompagnato, sia all’andata che al ritorno, da Fanfani, capo del Governo, e arriva a Loreto alle 11,50, dopo alcune soste alle stazioni più importanti per rispondere ai saluti della folla accorsa a salutarlo; all’ingresso del Santuario il Papa è ricevuto dal Presidente Antonio Segni. Nel discorso da lui tenuto nel Santuario, il Pontefice ricorda come in passato già altri Papi e personaggi famosi abbiano sostato lì in preghiera; poi egli sottolinea il fatto che il suo pellegrinaggio vuole essere la ripresa e la conferma di tutte le preghiere finora fatte per il felice svolgimento del Concilio e vuole essere il simbolo del cammino della Chiesa verso la missione, indicatale da Cristo, luce delle genti, di servizio, amore e pace.
Nel tardo pomeriggio Giovanni XXIII, sulla via del ritorno, sosta ad Assisi dove prega davanti alla tomba del Santo, del quale richiama la santità, l’umiltà e l’uso moderato delle cose belle e buone del mondo. Quindi il Papa si rivolge, in successione, ad Assisi, all’Italia e al mondo perché siano fedeli alla missione di pace e civiltà a cui Dio li ha chiamati.
Il pellegrinaggio del Papa si conclude con il suo rientro in Vaticano alle 22,10.
12 – 11 settembre 1962: il radiomessaggio del Papa al mondo
A un mese dall’inizio del Concilio Giovanni XXIII indirizza al mondo un radiomessaggio (nella foto).
Dopo aver definito la Chiesa come colei che ha ricevuto la missione di far conoscere agli uomini Cristo, luce delle genti, il Papa dice: “Che è mai infatti un Concilio Ecumenico se non il rinnovarsi di questo incontro della faccia di Gesù Risorto, re glorioso e immortale, radiante per tutta la Chiesa, a salute, a letizia e a splendore delle genti umane? Il mondo ha bisogno di Cristo ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo”. Poi, dopo aver ricordato il desiderio profondo dell’umanità di una vita condotta nell’amore e nella pace e i gravi problemi che travagliano il mondo odierno, il Papa afferma che tali problemi “stanno da sempre sul cuore della Chiesa” e che il Concilio potrà offrire ad essi soluzioni richieste dalla dignità dell’uomo e dalla sua vocazione cristiana. In particolare, egli richiama: l’uguaglianza fondamentale di tutti i popoli nell’esercizio di diritti e doveri; la difesa del carattere sacro del matrimonio; il pericolo delle dottrine che sostengono l’indifferentismo religioso o che negano Dio; il problema dei paesi sottosviluppati, ai quali la Chiesa si presenta come la Chiesa di tutti, e specialmente la Chiesa dei poveri; la necessità di denunciare e porre rimedio alle “miserie della vita sociale che gridano vendetta al cospetto di Dio” e di vigilare perché “la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti”; la necessità della libertà religiosa, essenziale per avviare l’uomo sul cammino della verità; il Concilio contribuirà a promuovere l’anelito degli uomini alla pace, alla fraternità e all’amore, esigenze naturali dell’umanità. Il Papa infine invita alla preghiera per l’unità dei cristiani, obiettivo a lui sempre presente e al quale il Concilio deve tendere: ut omnes unum sint (Gv 17,11), unum di pensiero, di parola e di opere.
11 – Dalla Aeterni Patris (1868) alla Humanae salutis (1961): un confronto tra le due Costituzioni di indizione del Concilio Vaticano I e del Concilio Vaticano II.
Con la Costituzione Humanae salutis del 25 dicembre 1961 Giovanni XXIII annuncia che il Concilio sarà convocato entro il 1962 (successivamente verrà precisato il giorno: 11 ottobre). E’ interessante confrontare questa Costituzione con quella del 1868, Aeterni Patris, con cui Pio IX (nella foto) indice il Concilio Vaticano I: a distanza di un secolo, in un contesto mondiale completamente mutato, si possono notare radicali differenze nel modo con cui i due Papi si pongono nei confronti del mondo contemporaneo, del ruolo dei laici nella Chiesa, dei cristiani non cattolici e nel valutare il lavoro svolto in preparazione al Concilio.
Riguardo al mondo contemporaneo, AeP si sofferma a descriverne i mali presenti; HS ne evidenzia le conquiste in campo scientifico e tecnico e il grande progresso materiale, a cui però non ne corrisponde uno uguale in campo morale. Nonostante ciò, dice il Papa, “ci sembra di scorgere indizi non pochi (i segni dei tempi) che fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e dell’umanità”.
Uno di questi segni è proprio quello del laicato cattolico sempre più consapevole delle sue responsabilità nella Chiesa, a cui esso può dare un validissimo apporto; dei laici, invece, AeP non fa cenno.
AeP non nomina per niente i fratelli separati, mentre HS sottolinea l’interesse che essi hanno mostrato per il Concilio durante il periodo di preparazione (come si è potuto notare nelle puntate scorse): verso di loro il Papa esprime stima e affetto e la viva speranza che il Concilio favorisca la ricostituzione dell’unità visibile di tutti i cristiani suscitando nei fratelli separati il desiderio di ritornare all’unità.
Infine AeP non accenna per nulla ai lavori preparatori, mentre HS ne parla in modo ampio.
Il Papa inoltre esprime l’augurio che il Concilio contribuisca a promuovere la pace: la Chiesa non può ignorare i problemi e le fatiche dell’umanità ed è chiamata a difendere i diritti di tutti gli esseri umani.
10 – Figure di Bergamaschi impegnati nel Concilio
All’inizio del periodo preparatorio (giugno 1960), tra i 15 componenti del Segretariato della Stampa e dello Spettacolo viene incluso anche don Andrea Spada (nella foto), direttore de L’Eco di Bergamo e autore di un diario del Concilio, ricco di molte osservazioni interessanti, che copre però solo il primo periodo (ottobre-dicembre 1962) a cui egli partecipò come peritus.
Invece tra i consultori del Segretariato per l’unità dei cristiani figura don Alberto Bellini, docente del Seminario, autore de Il movimento ecumenico, con una recensione di Padre R. Tucci, il quale afferma che Bellini esamina l’argomento “in tutti i suoi diversi aspetti con ottima conoscenza della materia e con ampia documentazione; è uno studio accurato e giudizioso del movimento ecumenico”.
Giuseppe Piazzi, vescovo di Bergamo (1953-1963), in un discorso sull’unità della Chiesa del 25 gennaio 1960, dice che tutti desiderano l’unione dei cristiani, ma a ciò non basterà un Concilio, date le profonde divisioni tuttora esistenti; occorre perciò che i cattolici e i fratelli separati ricerchino insieme la verità, nella carità reciproca.
In un’omelia del 29 giugno 1960 Piazzi definisce il Concilio “una rinata primavera della Chiesa, un rinnovarsi della sua perenne giovinezza”: essa vivrà un nuovo slancio missionario e il Concilio “sarà un dolcissimo richiamo ai fratelli separati, ma ci saranno ancora anni e anni di pena per questa infelice separazione di fratelli che credono nello stesso Cristo”. L’intento ecumenico sarà vivo, ma ciò richiederà che il mondo cattolico recuperi “una coscienza cristiana, il senso di Dio e della Chiesa, perché la vita, così infaustamente laicizzata, ritorni ad essere illuminata di Dio”.
Il suo nome risulta poi, a Concilio iniziato, tra gli eletti della Commissione sui vescovi e il governo delle diocesi, di cui aveva già fatto parte nella fase preparatoria.
Alla sua improvvisa morte gli succede Clemente Gaddi (1963-1977), all’epoca vescovo coadiutore di Siracusa, il cui nome risulta tra i nominativi proposti per eleggere i componenti della Commissione Dottrinale, in cui però non fu eletto. Caprile lo cita tra quei vescovi che hanno inviato alle loro diocesi lettere dal Concilio.
9 – Il Concilio e gli Ebrei
Può essere utile ricordare un antefatto: l’incontro avvenuto il 13 giugno 1960 tra Giovanni XXIII e Jules Isaac (nella foto), professore francese di Storia, la cui famiglia fu deportata ad Auschwitz, autore del libro Gesù e Israele, pubblicato nel 1948, in cui si esprimeva anche l’auspicio che le Chiese cristiane condannassero “l’insegnamento del disprezzo” a lungo predicato contro gli Ebrei: “Senza i secoli di catechesi, di predicazione e di vituperazione cristiane, la catechesi, la predicazione e la vituperazione hitleriane sarebbero state impossibili”. Il Papa, a cui Isaac manifesta perciò la speranza che il Concilio affronti il problema dei rapporti tra cristiani ed ebrei, gli risponde: “Avete diritto ben più che alla speranza”.
Quando però sulla stampa comincia ad affacciarsi l’ipotesi che, oltre a protestanti e ortodossi, possano essere presenti al Concilio, come osservatori, anche degli ebrei, in una conferenza di rabbini a Parigi nel 1961 si dichiara che il giudaismo non intende intervenire nel problema dell’unità dei cristiani.
Si esprime invece soddisfazione per la soppressione dai testi liturgici, voluta dal Papa, di alcune affermazioni offensive verso gli ebrei (basti ricordare l’eliminazione di perfidis dalla preghiera del Venerdi Santo: “Oremus pro perfidis Iudaeis”); ci si attende inoltre dal Concilio una esplicita dichiarazione di rinuncia all’antisemitismo, la fine dell’accusa di deicidio e il riconoscimento del ruolo di Israele nel disegno salvifico di Dio.
In un articolo sul Jerusalem Post del 14/1/1962 G. Wigoder riconosce che, grazie alle iniziative di Giovanni XXIII, “è evidente che un clima completamente nuovo esiste nella Chiesa Cattolica”. In un suo intervento E. Modigliani afferma che col Concilio “potremo assistere all’apertura di un dialogo che non abbia per fine la conversione degli interlocutori, ma il chiarimento delle reciproche posizioni. Per fare ciò occorre che la Chiesa sfrondi il suo insegnamento di quel tanto di avversione agli ebrei che diede origine a forme di antisemitismo e che è anticristiano”.
8 – Osservatori cristiani non cattolici invitati al Concilio
L’importanza, sottolineata la scorsa volta, della finalità ecumenica del Concilio ha fatto sì che ad esso venissero invitati anche osservatori cristiani non cattolici.
Il 2 dicembre 1960 l’Arcivescovo anglicano di Canterbury dott. Fisher va a Roma in visita al Papa: egli riconosce che per ora l’unione non è possibile perché ciò significherebbe soggezione a Roma, ma si deve insistere sull’unità di spirito e su ciò che vi è in comune tra anglicani e cattolici, invece di combattersi. Ciò, per il Papa, è segno di progresso e indica che non si devono nutrire timori reciproci.
Il 25 aprile 1962 il Cardinal Bea dichiara che gli osservatori non cattolici invitati al Concilio potranno seguirne i lavori partecipando alle sedute plenarie in S. Pietro, dove si discuteranno gli schemi da approvare. Il 5 luglio 1962 il nuovo Arcivescovo anglicano Ramsey (nella foto) rende noti i nomi dei tre delegati della sua Chiesa che assisteranno, con i delegati di altre Chiese non cattoliche (Luterana, ecc.), alle sedute plenarie del Concilio e dice: “E’ conveniente che noi della Comunione Anglicana accettiamo questo invito dai nostri colleghi cristiani nella Chiesa Cattolica Romana. Le profonde differenze dottrinali tra la Chiesa di Roma e la nostra non impediscono di invitare tutti i cristiani a pregare per il prossimo Concilio”.
Nel mondo ortodosso Atenagora, Patriarca di Costantinopoli, è favorevole a mandare osservatori e desidera incontrare il Papa, di cui dice: “E’ il Papa dell’unità e della carità. Dobbiamo pensare soprattutto a ciò che abbiamo in comune: la fede in Nostro Signore, la Tradizione, le Scritture, i sacramenti. L’unità è più che mai necessaria oggi per poterci abbracciare reciprocamente, piangere insieme a motivo della nostra lunga separazione, manifestare la nostra afflizione per il passato e la gioia per l’avvenire”. Invece Alexis, Patriarca di Mosca, dapprima è contrario a mandare osservatori, poi accetta, ma nel frattempo Atenagora, ignaro di tale decisione, per non rompere l’unità delle Chiese ortodosse, dichiara impossibile l’invio di suoi osservatori a Roma.
7 – L’Ecumenismo: un tema centrale nelle intenzioni di Giovanni XXIII
Uno dei motivi principali che hanno spinto Giovanni XXIII a convocare il Concilio è stato quello ecumenico, cioè il desiderio di promuovere un riavvicinamento tra i fratelli separati e la Chiesa cattolica. Questo obiettivo viene spesso sottolineato, oltre che dal Papa stesso, anche dal Cardinale gesuita tedesco Agostino Bea, posto alla guida del Segretariato dell’unità dei cristiani, come quando, in una intervista a New York il 17 giugno 1960, egli, citando il Motu proprio Superno Dei nutu, dichiara che il Segretariato si propone due scopi: fare in modo che “i fratelli separati possano seguire i lavori del Concilio e più facilmente trovare la via per raggiungere quella unità per la quale Gesù Cristo rivolse al Padre così ardente preghiera”. Il Cardinale aggiunge che il desiderio dell’unità è stato favorito dagli studi biblici e storici e che esso è maggiore nei paesi europei che negli Stati Uniti, dove le divisioni dei protestanti in moltissimi gruppi causano notevoli difficoltà al raggiungimento dell’unità. Due segni mostrano la “nostalgia” dell’unione: la creazione del Consiglio Mondiale delle Chiese, i cui aderenti sono accomunati dalla verità di “riconoscere Gesù Cristo come loro Salvatore e Dio”; la diffusione dell’Ottava di preghiere per l’unità (18-25 gennaio). Tuttavia occorre evitare facili illusioni poiché, dopo secoli di divisioni, molte sono le difficoltà da superare. Riguardo agli Ortodossi, il Papa non si attende subito l’unione, ma “il riavvicinamento prima, il riaccostamento poi e la riunione perfetta di tanti fratelli separati con l’antica Madre comune”; essi sono molto più vicini alla Chiesa cattolica dei gruppi protestanti, poiché da essa li divide soltanto la dottrina del primato e dell’infallibilità del Sommo Pontefice.
In un’altra occasione, a Monaco di Baviera, il cardinal Bea dichiara che il Concilio non risolverà tutti i problemi, specialmente quelli riguardanti l’unione delle Chiese, perchè a ciò non si è ancora preparati; scopo di esso, piuttosto, è “elaborare concrete premesse che permettano l’apertura di un dialogo tra i cattolici e le altre confessioni cristiane”.
6 – La fase preparatoria (giugno 1960 – settembre 1962)
Con il Motu proprio Superno Dei nutu, il 4 giugno 1960 Giovanni XXIII annuncia l’inizio della fase preparatoria e la costituzione di una Commissione Centrale presieduta dal Papa stesso, di dieci Commissioni presiedute dai presidenti delle Congregazioni di Curia, col compito di preparare gli schemi sui vari temi da trattare in Concilio, più due Segretariati.
1 – Commissione teologica;
2 – Commissione sui vescovi e il governo delle diocesi;
3 – Commissione sulla disciplina del clero e del popolo cristiano;
4 – Commissione sui religiosi;
5 – Commissione sulla disciplina dei sacramenti;
6 – Commissione sulla sacra liturgia;
7 – Commissione sui seminari, gli studi e l’educazione cattolica;
8 – Commissione sulle Chiese orientali;
9 – Commissione sulle missioni;
10 – Commissione sull’apostolato dei fedeli.
Ad esse si aggiungono:
Segretariato per i cristiani separati dalla Sede Apostolica, perché anch’essi “possano seguire i lavori del Concilio e trovare la via per raggiungere quell’unità per la quale Gesù rivolse al Padre Celeste così ardente preghiera”.
Segretariato per i problemi riguardanti stampa, radio, televisione, cinema, ecc.
Gli Acta e i Notiziari di G. Caprile ci riportano i discorsi di apertura e di chiusura di Giovanni XXIII in occasione delle sette sessioni complessive tenute dalla Commissione Centrale preparatoria (l’ultima delle quali il 20 giugno 1962), da lui presiedute; i lavori delle dieci Commissioni per preparare gli schemi relativi ai diversi temi da affrontare in Concilio e che la Commissione Centrale poi esaminò per decidere quali di quegli schemi sarebbero stati presentati all’assemblea conciliare per essere discussi e approvati. Infatti, per alcuni dei temi sopra elencati, furono elaborati schemi diversi da più Commissioni, al punto che la Commissione Centrale ne ricevette e ne esaminò ben 71: di essi ne furono poi presentati in Concilio complessivamente 22.
5 – I vota dei vescovi
Ecco un accenno ad alcuni vota, distinti per temi, sotto la voce Doctrinae capita (la Dottrina della Chiesa):
De theologica speculatione: Spogliare la Rivelazione della sua veste aristotelica e platonica e adottare un linguaggio più biblico; dare maggiore libertà ai teologi nell’indagare la verità. De fide catholica: chiarire i rapporti tra fede, ragione, progresso scientifico. De Sacra Scriptura: ogni nazione abbia una versione della Bibbia nella propria lingua; diffondere edizioni integrali della Bibbia per eliminare l’ignoranza della Scrittura tra i cattolici. De catholica Traditione: per favorire l’unione con i fratelli separati, si riveda il concetto di Tradizione e si dica che fonte primaria della Rivelazione è la Scrittura. De Ecclesia: si riaffermino il primato e l’infallibilità papali anche con espressioni della Scrittura e dei Padri: così il Papa non apparirà come altro dalla Chiesa, ma come membro gerarchico dell’unica Chiesa, in unione con gli altri membri; non si diano nuove definizioni dogmatiche che risultino pericolose all’unione con i fratelli separati, e non si usi più la formula dell’anatema; si chiarisca il ruolo e la dignità dei laici nella Chiesa. De Ecclesia et Statu: si tratti il tema della libertà di coscienza, la libertà religiosa, la tolleranza dei culti, lo Stato aconfessionale, la dottrina del bene comune; si diano indicazioni sulla collaborazione politica dei cattolici con altri partiti politici. De sociali doctrina Ecclesiae: alla Chiesa nulla di umano è estraneo, essa vuole liberare gli uomini da ogni ingiustizia, sostiene la dignità di ogni persona e l’uguaglianza dei diritti di tutti; il diritto alla vita è primario, quello alla proprietà è secondario e deve svolgere una funzione sociale. De theologia morali: respingere la teoria delle due norme morali, una per la vita privata, l’altra per quella pubblica: vi sono uomini cattolici che negli affari e in politica mancano di una vera coscienza.
De erroribus damnandis: ateismo, agnosticismo, immanentismo, positivismo, materialismo, laicismo, liberalismo, capitalismo, comunismo, marxismo, socialismo, nazionalismo, totalitarismo, ecc.
4 – Il lungo e impegnativo periodo di preparazione del Concilio Vaticano II.
Dall’annuncio del Concilio del 25 gennaio 1959 al suo effettivo inizio, l’11 ottobre 1962, è trascorso un periodo di quasi quattro anni, che si suole distinguere in due fasi: antepreparatoria (maggio 1959-maggio 1960), preparatoria (giugno 1960-settembre 1962).
Oggi, perciò, e nei prossimi interventi, ci soffermeremo su alcuni momenti significativi di queste due fasi, che possono aiutarci a capire l’importanza di un lavoro organizzativo così ampio e complesso e le difficoltà che inevitabilmente si sono dovute affrontare.
Il 15 maggio 1959 viene nominata la Commissione antepreparatoria, presieduta dal Cardinal Tardini, Segretario di Stato, e costituita da dieci membri, e ne vengono definiti i compiti: consultare i futuri Padri conciliari, le Congregazioni romane, le Università ecclesiastiche e cattoliche di tutto il mondo, sui temi più urgenti da trattare nel Concilio.
Il 18 giugno 1959 viene inviata una lettera ai destinatari sopra elencati perché facciano pervenire, in latino, i loro vota (proposte) omni cum libertate et sinceritate, entro il 1 settembre 1959; Tardini precisa: “Il Concilio sarà, più che dogmatico, pratico; più che ideologico, pastorale”.
Il 21 marzo 1960 viene spedita una lettera per sollecitare i vescovi, che ancora non l’avessero fatto, a mandare i loro vota.
Esito della consultazione: pervenute 2150 risposte su 2812 soggetti interpellati, tra Vescovi, Superiori di Ordini religiosi, Istituti di studi superiori.
Questo vasto materiale ha richiesto un lungo lavoro di schedatura per suddividere e raccogliere, per temi, le proposte pervenute alla Santa Sede, in base a cui capire quali fossero gli argomenti da trattare e successivamente elaborare gli schemi da presentare e discutere in Concilio.
La fase antepreparatoria si conclude il 30 maggio 1960 con un discorso in cui Giovanni XXIII traccia un bilancio senz’altro positivo del lavoro svolto dalla Commissione a tale scopo costituita un anno prima.
La prossima volta si offrirà un brevissimo saggio degli innumerevoli vota pervenuti in Vaticano e conservati in ben 14 volumi degli Atti.
3 – L’annuncio del Concilio Vaticano II (25 gennaio 1959) e l’Enciclica Ad Petri Cathedram (29 giugno 1959)
Da alcune testimonianze sappiamo che l’idea di un nuovo Concilio venne al successore di Pio XII, Giovanni XXIII, eletto Papa il 28 ottobre 1958, in modo spontaneo e pressoché improvviso: perciò esso non fu affatto una ripresa del Concilio progettato da Pio XII. L’annuncio venne dato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, ricorrenza della Conversione di S. Paolo, ai diciassette cardinali riuniti nella basilica di S. Paolo fuori le mura. Nel discorso tenuto, come Vescovo di Roma sottolineò il grande sviluppo avuto dalla città negli ultimi decenni e i problemi connessi alla situazione e all’assistenza spirituale della popolazione; come Pastore della Chiesa universale accennò ai pericoli, per la vita spirituale dei fedeli, derivanti dall’eccessiva attrattiva esercitata dai beni materiali e accresciuta dal progresso della tecnica. Per far fronte a ciò, il Papa annuncia quindi tre avvenimenti importanti: la celebrazione di un Sinodo diocesano per Roma, di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale e l’aggiornamento del Codice di Diritto Canonico. Per quanto riguarda il Concilio Ecumenico, esso vuole essere “un invito ai fedeli delle Comunità separate a seguirci anch’esse amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime anelano da tutti i punti della terra”.
Sulle tre iniziative annunciate il Papa ritorna con l’Enciclica Ad Petri Cathedram del 29 giugno 1959, auspicando che esse “possano felicemente condurre a una maggiore e più profonda conoscenza della verità, ad un salutare incremento del costume cristiano e alla restaurazione dell’unità, della concordia, della pace”. L’unità è una caratteristica ben visibile della Chiesa Cattolica che, sotto la guida di Pietro, l’ha ricevuta da Cristo stesso: è un’unità di fede, di regime, di culto. Unità di fede perché vi è una sola verità, tuttavia vi sono punti sui quali “la Chiesa cattolica lascia libertà di disputa ai teologi, in quanto si tratta di cose non del tutto certe e tali dispute non rompono l’unità della Chiesa”. Unità di regime poiché i fedeli sono soggetti ai sacerdoti, questi ai vescovi, e i vescovi al Papa successore di Pietro posto da Cristo a fondamento della Chiesa. Unità di culto perché nella Chiesa si celebra un solo sacrificio, quello eucaristico, pur con riti diversi.
Segue infine un appello ai cristiani separati: “Considerate che il nostro amoroso invito all’unità della Chiesa non vi chiama in casa forestiera, ma nella propria e comune casa paterna…Noi perciò a tutela dell’unità della Chiesa esortiamo a pregare con perseveranza anche tutti i nostri fratelli e figli in Cristo…a tutti i nostri fratelli e figli separati da questa Cattedra di Pietro ripetiamo le parole: “Io sono Giuseppe vostro fratello” (Gen 45,4)…da questa sospirata unità e concordia sgorgherà una grande pace, quella pace che Cristo ha donato con queste parole: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do non come la dà il mondo” (Gv 14,27).
2 – Progetti di Concilio prima del Vaticano II
La presa di Roma del 20 settembre 1870 aveva determinato la brusca interruzione, divenuta poi definitiva, del Concilio Vaticano I che, di fatto, formalmente non fu mai chiuso. Questo spiega come mai più tardi Pio XI (1922-1939) abbia considerato la possibilità di una ripresa di quel Concilio, anche se poi tale progetto non ebbe una sua effettiva realizzazione.
Anche il suo successore papa Pio XII (1939-1958) pensò alla possibilità di un nuovo Concilio e ne avviò l’effettiva preparazione costituendo una Commissione Centrale preparatoria. La prima fase ebbe inizio nel 1948, con la stesura di un elenco di argomenti da trattare nel futuro Concilio; nella seconda fase nel 1949, in una lettera inviata ai vescovi, si insistette sulla necessità di condannare gli errori del tempo moderno, ai quali il Concilio avrebbe dovuto porre rimedio. Questo il contenuto dottrinale che il Concilio avrebbe dovuto sviluppare: 1- Dio e il suo supremo dominio, fonte di ogni ordine; 2 – Natura e fine dell’uomo; 3 – Natura e compito della Chiesa.
In una terza fase (1949-1951) si cominciò a guardare all’effettivo svolgimento del Concilio; nella Commissione Centrale vennero però delineandosi due diverse posizioni: quella di coloro che ritenevano che il Concilio potesse svolgersi nel 1951, durare poche settimane, dimostrare l’unità dei Padri approvando in breve gli schemi presentati dalla Commissione Centrale, riaffermare le principali verità della Chiesa Cattolica e condannare gli errori della modernità; e la posizione di coloro che, invece, ritenevano necessario un lungo periodo di preparazione, fissando l’inizio del Concilio senza porre limiti alla sua durata e prevedendo uno svolgimento in più sessioni, lasciando ai Padri conciliari la piena libertà di discussione.
Di fronte a queste opinioni contrastanti e ai problemi organizzativi che un Concilio di tali dimensioni poneva, Pio XII preferì abbandonare tale progetto, di cui non si fece più parola.
1 – Una preziosa testimonianza
La bibliografia sul Concilio Vaticano II ha ormai raggiunto dimensioni vastissime e ciò denota l’importanza che tale evento ha avuto non solo per la Chiesa Cattolica, ma anche per le altre Chiese cristiane e per la società civile sia italiana che mondiale.
Numerose sono state le interpretazioni date, in particolare, ad alcuni tra i testi finali prodotti dall’assise conciliare, che tuttora non mancano, in prossimità, ormai, del sessantesimo anniversario dal suo inizio, di suscitare continuo interesse e nuove discussioni: spesso per constatare, dopo tanti anni, la scarsa applicazione, se non addirittura l’oblio, in cui sono cadute alcune indicazioni conciliari, che lo stesso Papa Francesco ha più volte richiamato all’attenzione della Chiesa.
A maggior ragione risultano di grande importanza, per conoscere e mantenere viva e attuale l’eredità lasciataci da un evento così decisivo, le due opere citate la scorsa volta, da cui si possono attingere moltissime informazioni: gli Atti del Concilio e i cinque volumi curati da G. Caprile, un gesuita che, su richiesta dello stesso Giovanni XXIII, compilò e raccolse i notiziari relativi a ciò che avvenne durante la fase preparatoria e il successivo svolgimento del Concilio (1959-1965), a cui egli potè assistere personalmente.
Per quanto riguarda i 66 volumi degli Atti, il loro valore straordinario consiste certamente nel fatto che essi contengono e ci offrono tutto ciò che venne proposto, discusso, approvato dai Padri conciliari, a partire da quando Papa Roncalli annunciò, il 25 gennaio 1959, la sua decisione di convocare il Concilio, fino alla sua conclusione, l’8 dicembre 1965. Materiale, quello raccolto negli Atti, amplissimo e più volte citato da Caprile stesso, che rappresenterà un punto di riferimento costante in questo nostro percorso quindicinale sul Vaticano II.
Spigolature tra le fonti del Concilio. Notizie, curiosità e aneddoti dalle voci dei protagonisti.
Da oggi, mercoledì 29 settembre 2021, con cadenza quindicinale, sul nostro sito (www.bibliotecadiocesanabg.it), inizia la pubblicazione di una rubrica dedicata al Concilio Vaticano II a cura di Giorgio Gervasoni, dal titolo Spigolature tra le fonti del Concilio.
In Biblioteca si conservano due opere fondamentali dedicate a tale evento:
– gli Atti del Concilio, suddivisi in Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando e Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, in 66 volumi editi dalla Libreria Editrice Vaticana;
– Il Concilio Vaticano II : cronache del Concilio Vaticano II, edite da La Civiltà Cattolica, in 5 volumi curati da G. Caprile.
Con questa rubrica vogliamo sondare la straordinaria ricchezza di informazioni contenute in queste pubblicazioni, soffermandoci, oltre che su alcuni momenti particolarmente importanti e su alcuni protagonisti di primo piano del Concilio, anche su certi aspetti, notizie ed aneddoti che potrebbero essere d’aiuto ad entrare nel clima e nello spirito di un evento così significativo per l’intera Chiesa.
Si tratterà di interventi, per ragioni di spazio, sintetici, senza alcuna pretesa di essere esaurienti, ma con l’intento di suscitare in chi legge qualche stimolo e interesse a proseguire nell’approfondimento personale.